Due sono gli eventi più importanti nella vita di Giuseppe Milio Voltolina1: la fondazione dell’Accademia degli Unanimi e Concordi2 e l’innamoramento per Isabella Socia. E tale passione amorosa, non corrisposta, avrebbe portato il poeta alla pazzia3. Le notizie biografiche su Isabella sono assai scarse: nostro campo d’indagine sarà piuttosto la sua figura letteraria. Essa4 compare in tre delle quattro opere latine del Voltolina; il poema De hortorum cultura, sulla coltivazione dei giardini a lei dedicato, si apre con la sua presenza:
Virginei decus una chori, Isabella, venito.
Hortorum hic cultus disces.5
[…]
Ergo age tu mea cura veni, Isabella, tibi ipsos
dicimus hortorum (ne, quaeso, despice) cultus.6
E si chiude a cerchio:
Haec super hortorum cultu, Isabella, canebam,
dum tenet imperium nostrae Venerius orae,
ter sacer et sanctus, dignus qui diceret unus
iura mari terraeque; tulit qui saecula nobis
aurea: iustitiae magnum, et pacis incrementum:
ille ego a teneris qui te admiratus adoro,
et doleo aeterno non posse inferre te Olympo.7
In particolare, dal confronto con il finale delle Georgiche di Virgilio, sulle quali è modellato tutto il poema del Voltolina, si nota come la figura della Socia, seppur destinataria dell’opera, sembri, per così dire, aggiunta:
Haec super arvorum cultu pecorumque canebam
et super arboribus, Caesar dum magnus ad altum
fulminat Euphraten bello victorque volentis
per populos dat iura viamque adfectat Olympo.
Illo Vergilium me tempore dulcis alebat
Parthenope studiis florentem ignobilis oti,
carmina qui lusi pastorum audaxque iuventa,
Tytire, te patulae cecini sub tegmine fagi.8
Accanto al motivo politico, per cui Caesar (Augusto) corrisponde a Venerius (Veniero, governatore della Magnifica Patria) l’amore per Isabella ribalta la condizione di placido otium descritta da Virgilio e turba gli studi del Milio. Nel De hortorum cultura, la dichiarazione del proprio amore e la relativa indifferenza della ragazza (ne, quaeso, despice) sono appena intuiti. Sono invece centrali nei due carmi erotici, ovvero il Misetus e l’Isis. In entrambi il tema di fondo è la disperazione del poeta che non trova pace in quanto innamorato di Isabella e da lei tristemente ignorato:
solus ego invigilo, cui nulla papavera possent,
sic multis agitor curis, donare soporem.
Ah quoties statui, tantum finire dolorem
aut ferro aut laqueo!9
Nel Misetus, la ferocia della fanciulla che ignora lo spasimante è descritta attraverso esempi tratti, com’è uso, dalla mitologia:
Libycae nam num genuere leaenae
Isellam, dixi mecum? Num Caspia tigris?10
[…]
Excipit ignotos iactatos aequore nautas
Laestrigon, et Cyclops, atque omnis barbara tellus:
Laestrigone immiti renuit crudelior Isis
Laestrigon, et Cyclops, atque omnis barbara tellus:
Laestrigone immiti renuit crudelior Isis
uno mi misero risu donare salutem?11
Voltolina inoltre descrive il suo gioco di seduzione con una certa ironia traendo alcune situazioni da quello che, a nostro avviso, è tra i modelli letterari del componimento, ovvero l’Idillio XI di Teocrito, il quale presenta un Ciclope sensibile e astuto che gioca a far ingelosire l’amata, e dispettosa, Galatea. Allo stesso modo Milio ricorre a tale, se si vuole puerile, espediente:
Ah quoties misit cum floreque Nisa salutem!
Ah mihi litterulas quoties dedit ipsa Neaera,
queis stabilem nostram cupiebat flectere mentem!12
[...]
Ergo aliam, Misete, para tibi laetus amicam,
postquam ingrata tuos Isis fastidit amores.13
Ciò basti riguardo al Misetus; veniamo più diffusamente all’Isis. Evidente la derivazione catulliana del poemetto, e per l’uso degli endecasillabi faleci, e per varie analogie lessicali disseminate tra i suoi versi. Anche qui, alla tranquillità del destinatario, Orazio Pellegrino, immerso in un sereno paesaggio bucolico benacense, si contrappone la condizione infelice del poeta:
Verum, me miserum, cui benigna
Isellam licuit videre numquam,
sed semper mihi vel severiorem,
quam Daphne fuerit lyrisonanti
Phaebo, vel iuveni Diana, cui iam
ornavit gemino caput misellum
cornu, et quem proprii canes vorarunt;
heu quid me tenues iuvant avenae?14
La figura di Isabella viene assimilata alla ninfa Dafne che fugge da Apollo e a Diana che fa sbranare Atteone reo di averla vista nuda mentre si bagnava a una fonte. E con altra similitudine preziosa, pur se non erudita, il Voltolina descrive il suo stato:
Ergo si facio ut papiliones
qui lucis nimio volant amore
in suum exitium, suumque fatum,
quid mirum, quoniam mea puella
solem reddere vel tenebricosum
potest lucidulis suis ocellis?
Quos cum conspicio, ut papiliones
cum se coniiciunt amatum in ignem,
conflagro misere nimis misellus.15
qui lucis nimio volant amore
in suum exitium, suumque fatum,
quid mirum, quoniam mea puella
solem reddere vel tenebricosum
potest lucidulis suis ocellis?
Quos cum conspicio, ut papiliones
cum se coniiciunt amatum in ignem,
conflagro misere nimis misellus.15
Il tono dell’Isis però, a differenza del Misetus, pare segnato da una maggiore rassegnazione, e laddove risulta impossibile stabilire i rapporti cronologici tra i due componimenti, precisiamo di affidarci a una semplice sensazione di posteriorità dell’Isis, tuttavia non comprovata. Il Milio nel finale esprime il desiderio di guarire dalla sua malattia amorosa, ma ne constata pure l’impossibilità con un atteggiamento che richiama l’odi et amo di Catullo e che trova anche solo nel semplice ricordo una, seppur misera, soddisfazione16:
At si quod medicus solet docere
Naso, cum iuveni febriculoso
doctis versiculis suis medetur,
Isella statuo carere velle;
et sanguis subito riget per artis,
et sanguis subito riget per artis,
et ponunt proprium genae ruborem,
et turgent lachrymis miselli ocelli;
statim solicitudo adest severa,
et timor gelidus, dolorque tristis;
adsunt maestitiae, molestiaeque;
post suspiria milleque et trecenta
et timor gelidus, dolorque tristis;
adsunt maestitiae, molestiaeque;
post suspiria milleque et trecenta
dat latus miserum; sequuntur inde
larga flumina lachrymationum.17
larga flumina lachrymationum.17
Prolusione a Isabella: la dea Desnuda, 5 novembre 2010
(poi in Il corriere del Garda, n° 27 - febbraio 2013)
NOTE
1 Si danno qui alcuni brevi cenni sulle origini e sulla nascita del poeta. Innanzitutto oscilla, secondo uso comune del tempo, la grafia della sua onomastica. Al nome di battesimo, il BRUNATI aggiunge Girolamo, traendolo dal suo registro battesimale; riguardo al cognome, accanto a Milio, troviamo attestato anche Mejo, Meio e Mileo (nel GRATTAROLO) in volgare e Milius, Mellus (per paronomasia con mel-mellis, cioè miele, in Orazio Pellegrino) ed Aemilius (in Pietro Alberti) in latino. Il soprannome Voltolina deriverebbe dalla terra di origine, la Valtellina appunto, come scrive il BRUNATI: «di famiglia originaria della Valtellina, e perciò Voltolina soprannominato. Nacque egli in Salò da Lazzaro Mejo il dì 11 gennaio 1536»; e così sempre il BRUNATI chiosa in due note: «se Tellino lo denomina Pietro Alberti suo coevo, in un epigramma che sta innanzi a’ libri De hortorum cultura (percurens suaves dulcis Telline libellos), dovrà tenersi per certissimo che egli fosse nato di famiglia ne’ tempi addietro dalla Valtellina venuta a stanziarsi a Salò. Il Porcacci nominava Voltolina la Valtellina, e il Cluverio Vallis plerumque, notava, dicitur a vulgo Voltolina: e ognun sa che così chiamasi tuttavia corrottamente quella valle, e Voltolini i suoi abitatori» e «il conte Gian Battista Giovio (Gli uomini della Comasca illustri, p. 149. Modena 1784) diceva il Mejo nativo di Traona, terra della Valtellina spettante alla diocesi di Como. [...] Noi il diremo di famiglia originaria della Valtellina, e forse della terra di Traona». Il FAPPANI però riporta anche un’altra versione: «di Lazzaro, chiamato “il Voltolina” secondo alcuni per l’origine della sua famiglia dalla Valtellina, secondo Guido Lonati dal nome di una contrada omonima di Gardone Riviera usato per indicare altre famiglie di Maderno e di Salò». Per quanto concerne la sua nascita, la data più accreditata sembra essere, come già detto, l’11 gennaio 1536 (BRUNATI e STORIA DI BRESCIA t. II, p. 593); il FAPPANI indica il medesimo giorno, ma dell’anno 1563, il che si tratta quasi sicuramente di refuso di inversione per 1536; il GARGNANI, nella Prefazione alla sua edizione del 1813, indica invece il 23 aprile 1549 e un nome differente del padre, ovvero Cristoforo Francesco.
2 Su tale argomento, ampiamente trattato, si rimanda oltre alla BIBLIOGRAFIA. Ci si limita in questa sede, per imposta brevità, a riportare quanto scrive la STORIA DI BRESCIA (t. II, p. 511): «già nel 1543 Jacopo Bonfadio [lettera 24 novembre 1543 al Conte Fortunato Martinengo] aveva pensato alla creazione di un’accademia sulle rive del lago amato: ma fu uno dei tanti sogni nella vita dello sfortunato scrittore. Un’accademia nacque forse poco dopo a Salò circa il 1545, con il nome di Accademia dei Concordi, che si dice fosse presto assorbita dalla più fortunata Accademia degli Unanimi (1564), nel 1573 anzi le due Accademie si fusero ufficialmente, fondata con altri giovani letterati e musicisti da Giuseppe Melio Voltolina». Si confronti con il BRUNATI, e con FAPPANI: «tornato a Salò, con altri diciotto giovani il 26 maggio 1564 fondava l’Accademia Unanime o Concorde, di cuifu prima rettore o preside, nel quale ebbe il titolo accademico di “odioso”». Come si vede il Bonfadio è considerato il promotore, almeno ideale di dette Accademie, riguardo alle cui origini si affiancano altri motivi; citiamo in tal proposito A. BONOMI: «l’eventuale influsso esercitato sulla cultura locale dal letterato [Jacopo Bonfadio] che, seppur spesso assente fisicamente dalla zona, doveva essere ben informato dei dibattiti in corso sia per la rilevanza della sua famiglia, sia per i suoi legami con i centri culturali veneti assai influenti anche sul Garda, territorio non secondario della Repubblica Veneta. [...] sarebbe illuminante poter ricostruire il quadro culturale che ha portato alla nascita delle Accademie in quel di Salò. Queste non furono semplicemente la conseguenza di una emulazione di quanto avveniva nelle città della Serenissima Repubblica o di altre parti d’Italia, ma anche lo sbocco naturale del concorrere di ingegni del luogo, favoriti certamente dalla diffusione delle opere a stampa prodotte da quegli abili e versatili stampatori provenienti da diversi centri della Riviera (in ATTI DEL CONVEGNO, Jacopo Bonfadio a cinquecento anni dalla nascita, pp. 32-33)». L’influenza del Bonfadio quindi, l’importanza di Salò, capitale della Magnifica Patria e l’attività degli stampatori sono i fattori determinanti per la nascita delle Accademie, ai quali ci sentiamo di aggiungere, andando un poco più indietro, il magistero (prima del 1506) in Salò del Pilade Boccardi, commentatore, tra gli altri, di Esiodo, autore di una Grammatica latina, scritta forse proprio sul Garda, e di una Genealogia deorum, ovvero un compendio di mitologia in cinque libri di distici latini, certo opera di scarso valore letterario, ma che non può essere ignorata in relazione agli interessi particolarmente eruditi degli umanisti salodiani.
3 La notizia è riferita dal GRATTAROLO, contemporaneo e amico del Voltolina. Così nella Prefazione il GARGNANI: «una gagliarda passione amorosa invaghillo di Isabella Socia, a cui dedica la sua Coltivazione degli Orti. Questo innamoramento, come lo dice egli stesso, il rese poeta; ma in appresso, qual è che la cagion ne fusse, gli tolse il cervello, secondoché riferisce Bongianni Grattarolo suo amico». Più esaustivo e convincente il giudizio del BRUNATI: «così parrebbe che [...] fino al 1586, in cui stampava il Camilli, il Mejo avesse mentem sanam in corpore sano. Il Gratarola però nella sua Storia della Riviera da lui scritta nel 1587, ci fa credere che il Mejo fosse già uscito di cervello: e il Gargnani credette, che il suo innamoramento per Isabella Socia da lui celebrata fino alla nausea e nei libri della Cultura degli Orti, e nel poemetto Iside, e in altre poesie italiane, qualunque ne fosse la cagione, gli togliesse appunto il cervello. Nè forse fu altrimenti. Sebbene possa parere che una cotal fiamma, pel volgere di forse trent’anni, dovesse non che spegnersi farsi cenere. Che che se ne fosse, null’altro più m’è venuto fatto di sapere de’ fatti e della vita di lui, néil quando pure della sua morte».
4 Milio la chiama Isabella, Isella e Isis (ovvero Iside); ci sentiamo di affermare che tali varianti siano dovute per lo più ad esigenze metriche.
5 De hort. Cul. I, 4-5: «Vieni Isabella, decoro unico della schiera di vergini. Qui tu apprenderai come si coltivano i giardini».
6 De hort. Cul. I, 22-3: «Suvvia, vieni dunque, Isabella, mio amore (non fuggire, ti prego), ti insegnerò la cura dei giardini».
7 De hort. Cul. III, 445-451: «questo cantavo, Isabella, sulla coltivazione dei giardini, mentre Veniero deteneva il potere sulla nostra Riviera, tre volte sacro e santo, unico degno di dispensare leggi per mare e per terra; lui che ci ha portato secoli d’oro, garante illustre di pace e giustizia; questo cantavo, io che ti adoro ammirando la tua bellezza e mi dispiaccio se non posso innalzarti fino all’Olimpo immortale».
8 Virgilio, Georg. IV, 559-566.
9 Mis. 29-32: «solo io rimango sveglio, così agitato da innumerevoli ansie, e a me nessun papavero può portare la quiete. Ah, quante volte pensai di porre fine a tanto dolore con un coltello o con un cappio!». Quanto ai versi 31-32, si confronti Ovidio, Remedia Amoris, 17-19.
10 Mis. 34-35: «mi chiesi se mai fossero state le leonesse di Libia ad aver generato Isabella. O una tigre del Caspio?». La prima immagine è tratta da Catullo, 60, 1-3: «Num te leaena montibus Libystrinis...procreavit»; l’altra deriva da Virgilio, Aen. IV, 366/367: «perfide, sed duris genuit te cautibus horrens / Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres».
11 Mis. 43-46: «Anche i Lestrìgoni, il Ciclope e ogni barbara terra accolsero marinai ignoti tormentati dal mare: Isabella può essere più feroce di un Lestrìgone e negarmi una salvezza che si accontenta di un solo sorriso?» Il paragone coi Lestrigoni (cfr. Ovidio, Met. XIV, 233-240) è piuttosto inusuale in ambito amoroso. Per il Ciclope vedi testo subito sotto.
12 Mis. 55-57: «Ah quante volte Nisa mi mandò il suo saluto con un fiore! Ah quante volte Neera mi diede di persona le sue letterine con cui voleva cambiare il mio unico amore per te!».
13 Mis. 132-133: «dunque, Miseto, felice prenditi un’altra fanciulla, dato che l’ingrata Isabella disprezza il tuo amore».
15 Isis 60-68: «così se faccio come le falene, che volano verso la loro morte e il loro destino per l’eccessivo amore della luce, di che ti meravigli, dal momento che la mia fanciulla con i suoi occhietti lucidi può rendere scuro persino il sole? E quando li guardo, come le falene quando si congiungono col desiderato fuoco, disperato brucio assai miseramente». La similitudine è piuttosto rara nei poeti latini; un modello potrebbe essere il bellissimo esametro palindromo di un anonimo medievale sulle falene: «in girum imus nocte et consumimur igni»; ma tale fonte ci sembra più suggestiva che certa.
14 Isis 35-42: «Quale sollievo c’è per me nei dolci flauti? Quale, per me misero, cui non è mai stato possibile vedere Isabella ben disposta, ma anzi sempre più crudele nei miei confronti; crudele come fu Dafne con Apollo che suonava la lira, o Diana con il giovane al quale cinse il capo infelice col doppio corno e che fece divorare dai propri cani»
16 Viene alla mente «E pur mi giova/ la ricordanza, e il noverar l’etate/ del mio dolore» di Leopardi (Alla luna, 10-12), che probabilmente non leggeva il Voltolina. L’idea del beneficio del ricordo ribalta un tema diffuso tra antichi e medievali, espresso, tra i molti, in Dante, Inferno, V, 121-123 «Nessun maggior dolore/ che ricordarsi del tempo felice/ ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore», riprendendo una massima di Virgilio (Aen. II, 3-4; IV, 647-705) o di Boezio (De cons. phil. II, 4, 2).
17 Isis 130-142: «ma se come insegna il medico Nasone, quando risana coi dotti versi il giovane ammalato, decido di voler fare a meno di Isabella, ecco subito il sangue mi si gela nelle vene, e le gote perdono il loro colorito, e gli occhi si gonfiano di lacrime; subito mi prende una rigida ansia, una fredda paura, un triste dolore; vengono afflizione e malinconia; poi mille e trecento sospiri si diffondono in me misero, quindi segue un infinito fiume di pianti». Naso è Ovidio (Publio Nasone) e l’opera in cui cura le ferite d’amore sono i Remedia amoris, in particolare cfr. vv. 41-44.
2 Su tale argomento, ampiamente trattato, si rimanda oltre alla BIBLIOGRAFIA. Ci si limita in questa sede, per imposta brevità, a riportare quanto scrive la STORIA DI BRESCIA (t. II, p. 511): «già nel 1543 Jacopo Bonfadio [lettera 24 novembre 1543 al Conte Fortunato Martinengo] aveva pensato alla creazione di un’accademia sulle rive del lago amato: ma fu uno dei tanti sogni nella vita dello sfortunato scrittore. Un’accademia nacque forse poco dopo a Salò circa il 1545, con il nome di Accademia dei Concordi, che si dice fosse presto assorbita dalla più fortunata Accademia degli Unanimi (1564), nel 1573 anzi le due Accademie si fusero ufficialmente, fondata con altri giovani letterati e musicisti da Giuseppe Melio Voltolina». Si confronti con il BRUNATI, e con FAPPANI: «tornato a Salò, con altri diciotto giovani il 26 maggio 1564 fondava l’Accademia Unanime o Concorde, di cuifu prima rettore o preside, nel quale ebbe il titolo accademico di “odioso”». Come si vede il Bonfadio è considerato il promotore, almeno ideale di dette Accademie, riguardo alle cui origini si affiancano altri motivi; citiamo in tal proposito A. BONOMI: «l’eventuale influsso esercitato sulla cultura locale dal letterato [Jacopo Bonfadio] che, seppur spesso assente fisicamente dalla zona, doveva essere ben informato dei dibattiti in corso sia per la rilevanza della sua famiglia, sia per i suoi legami con i centri culturali veneti assai influenti anche sul Garda, territorio non secondario della Repubblica Veneta. [...] sarebbe illuminante poter ricostruire il quadro culturale che ha portato alla nascita delle Accademie in quel di Salò. Queste non furono semplicemente la conseguenza di una emulazione di quanto avveniva nelle città della Serenissima Repubblica o di altre parti d’Italia, ma anche lo sbocco naturale del concorrere di ingegni del luogo, favoriti certamente dalla diffusione delle opere a stampa prodotte da quegli abili e versatili stampatori provenienti da diversi centri della Riviera (in ATTI DEL CONVEGNO, Jacopo Bonfadio a cinquecento anni dalla nascita, pp. 32-33)». L’influenza del Bonfadio quindi, l’importanza di Salò, capitale della Magnifica Patria e l’attività degli stampatori sono i fattori determinanti per la nascita delle Accademie, ai quali ci sentiamo di aggiungere, andando un poco più indietro, il magistero (prima del 1506) in Salò del Pilade Boccardi, commentatore, tra gli altri, di Esiodo, autore di una Grammatica latina, scritta forse proprio sul Garda, e di una Genealogia deorum, ovvero un compendio di mitologia in cinque libri di distici latini, certo opera di scarso valore letterario, ma che non può essere ignorata in relazione agli interessi particolarmente eruditi degli umanisti salodiani.
3 La notizia è riferita dal GRATTAROLO, contemporaneo e amico del Voltolina. Così nella Prefazione il GARGNANI: «una gagliarda passione amorosa invaghillo di Isabella Socia, a cui dedica la sua Coltivazione degli Orti. Questo innamoramento, come lo dice egli stesso, il rese poeta; ma in appresso, qual è che la cagion ne fusse, gli tolse il cervello, secondoché riferisce Bongianni Grattarolo suo amico». Più esaustivo e convincente il giudizio del BRUNATI: «così parrebbe che [...] fino al 1586, in cui stampava il Camilli, il Mejo avesse mentem sanam in corpore sano. Il Gratarola però nella sua Storia della Riviera da lui scritta nel 1587, ci fa credere che il Mejo fosse già uscito di cervello: e il Gargnani credette, che il suo innamoramento per Isabella Socia da lui celebrata fino alla nausea e nei libri della Cultura degli Orti, e nel poemetto Iside, e in altre poesie italiane, qualunque ne fosse la cagione, gli togliesse appunto il cervello. Nè forse fu altrimenti. Sebbene possa parere che una cotal fiamma, pel volgere di forse trent’anni, dovesse non che spegnersi farsi cenere. Che che se ne fosse, null’altro più m’è venuto fatto di sapere de’ fatti e della vita di lui, néil quando pure della sua morte».
4 Milio la chiama Isabella, Isella e Isis (ovvero Iside); ci sentiamo di affermare che tali varianti siano dovute per lo più ad esigenze metriche.
5 De hort. Cul. I, 4-5: «Vieni Isabella, decoro unico della schiera di vergini. Qui tu apprenderai come si coltivano i giardini».
6 De hort. Cul. I, 22-3: «Suvvia, vieni dunque, Isabella, mio amore (non fuggire, ti prego), ti insegnerò la cura dei giardini».
7 De hort. Cul. III, 445-451: «questo cantavo, Isabella, sulla coltivazione dei giardini, mentre Veniero deteneva il potere sulla nostra Riviera, tre volte sacro e santo, unico degno di dispensare leggi per mare e per terra; lui che ci ha portato secoli d’oro, garante illustre di pace e giustizia; questo cantavo, io che ti adoro ammirando la tua bellezza e mi dispiaccio se non posso innalzarti fino all’Olimpo immortale».
8 Virgilio, Georg. IV, 559-566.
9 Mis. 29-32: «solo io rimango sveglio, così agitato da innumerevoli ansie, e a me nessun papavero può portare la quiete. Ah, quante volte pensai di porre fine a tanto dolore con un coltello o con un cappio!». Quanto ai versi 31-32, si confronti Ovidio, Remedia Amoris, 17-19.
10 Mis. 34-35: «mi chiesi se mai fossero state le leonesse di Libia ad aver generato Isabella. O una tigre del Caspio?». La prima immagine è tratta da Catullo, 60, 1-3: «Num te leaena montibus Libystrinis...procreavit»; l’altra deriva da Virgilio, Aen. IV, 366/367: «perfide, sed duris genuit te cautibus horrens / Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres».
11 Mis. 43-46: «Anche i Lestrìgoni, il Ciclope e ogni barbara terra accolsero marinai ignoti tormentati dal mare: Isabella può essere più feroce di un Lestrìgone e negarmi una salvezza che si accontenta di un solo sorriso?» Il paragone coi Lestrigoni (cfr. Ovidio, Met. XIV, 233-240) è piuttosto inusuale in ambito amoroso. Per il Ciclope vedi testo subito sotto.
12 Mis. 55-57: «Ah quante volte Nisa mi mandò il suo saluto con un fiore! Ah quante volte Neera mi diede di persona le sue letterine con cui voleva cambiare il mio unico amore per te!».
13 Mis. 132-133: «dunque, Miseto, felice prenditi un’altra fanciulla, dato che l’ingrata Isabella disprezza il tuo amore».
15 Isis 60-68: «così se faccio come le falene, che volano verso la loro morte e il loro destino per l’eccessivo amore della luce, di che ti meravigli, dal momento che la mia fanciulla con i suoi occhietti lucidi può rendere scuro persino il sole? E quando li guardo, come le falene quando si congiungono col desiderato fuoco, disperato brucio assai miseramente». La similitudine è piuttosto rara nei poeti latini; un modello potrebbe essere il bellissimo esametro palindromo di un anonimo medievale sulle falene: «in girum imus nocte et consumimur igni»; ma tale fonte ci sembra più suggestiva che certa.
14 Isis 35-42: «Quale sollievo c’è per me nei dolci flauti? Quale, per me misero, cui non è mai stato possibile vedere Isabella ben disposta, ma anzi sempre più crudele nei miei confronti; crudele come fu Dafne con Apollo che suonava la lira, o Diana con il giovane al quale cinse il capo infelice col doppio corno e che fece divorare dai propri cani»
16 Viene alla mente «E pur mi giova/ la ricordanza, e il noverar l’etate/ del mio dolore» di Leopardi (Alla luna, 10-12), che probabilmente non leggeva il Voltolina. L’idea del beneficio del ricordo ribalta un tema diffuso tra antichi e medievali, espresso, tra i molti, in Dante, Inferno, V, 121-123 «Nessun maggior dolore/ che ricordarsi del tempo felice/ ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore», riprendendo una massima di Virgilio (Aen. II, 3-4; IV, 647-705) o di Boezio (De cons. phil. II, 4, 2).
17 Isis 130-142: «ma se come insegna il medico Nasone, quando risana coi dotti versi il giovane ammalato, decido di voler fare a meno di Isabella, ecco subito il sangue mi si gela nelle vene, e le gote perdono il loro colorito, e gli occhi si gonfiano di lacrime; subito mi prende una rigida ansia, una fredda paura, un triste dolore; vengono afflizione e malinconia; poi mille e trecento sospiri si diffondono in me misero, quindi segue un infinito fiume di pianti». Naso è Ovidio (Publio Nasone) e l’opera in cui cura le ferite d’amore sono i Remedia amoris, in particolare cfr. vv. 41-44.