Così il Graziolo scrive l’elogio del Benaco nel suo Discorso di peste (1576):
«Ma che l’aere di questa patria, oltre i continui venti che lo purgano, anco per altri rispetti non si possa putrefare ognuno, c’habbia una minima notitia della Riviera del
nostro Benaco, senza alcun contrasto lo confesserà, essendo che in tutti i luoghi la terra
è assai secca e petrosa, che se ben piovesse più giorni, cessata la pioggia, si può caminare senza trovar fango: onde ancor noi siamo manco soggetti alle infermità che nascono da putredine che quelli che vivono in luoghi humidi, per essere i nostri corpi più
secchi e manco abondanti di escrementi. Percioché i luoghi secchi e l’aere secco fanno
anco l’habito del corpo più secco e più puro; anzi quanto più l’estate appresso noi va
humida, tanto manco infermità abondano, apportandone più tosto un temperamento
alla nostra siccità che danno alcuno. Et quello che è di maggior momento, oltre le herbe che di continuo spirano soavissimo odore, è che questa nostra Riviera abonda di
tanti allegri e nobili arbori, che a paragone de’ nostri giardini quelli delle Hesperide
parrebbono selvaggi; conciosia che per la difesa che ci fanno i monti dalla Tramontana
non vi si sente mai freddo eccessivo, né anco per altra cagione eccessivo caldo. La onde
per tal temperie perpetuamente vi verdeggiano Lauri, Mirti, Cipressi, Olivi, Limoni,
Aranci e Cedri che sarebbono atti co’ loro fiori e frutti così odoriferi scacciar ogni putredine dall’aere di tutta la Riviera. […] Né in questa nostra Riviera si trovano paludi o stagni da i quali possano uscire alcune essalationi putride, ché qui sono se non
Fontane d’acqua viva, non morta; e l’acqua del nostro Benaco è la più pura, la più
sincera e la più limpida di qual si voglia altra, et ha in sé tutte quelle conditioni che
danno Hippocrate, Galeno, Avicenna, Dioscoride, Paolo, Aetio, et altri Autori di
medicina alla buona e perfetta acqua; percioché ella è dolce al gusto, dilettevole da
bere, priva d’ogni qualità estranea, leggierissima, sottilissima et purissima, e bevuta,
in un tratto passa per le viscere senza far molestia o ventosità alcuna, e facilmente si
scalda e si rinfresca. Non è cruda né aspera come quella de’ monti, anzi et herbaggi e
legumi e carne e frutti e radici facilissimamente in quella si cuoceno. E’ fredda d’estate, è calda d’inverno, non al contrario, come è la palustre; non pigra né lenta o morta,
ma sempre in continuo flusso e reflusso; et ha il suo letto tutto petroso et arenoso di
una arena mondissima, non come la più parte dell’altre acque, fangoso e sporco: talché
si potria dare anco di questa alli infermi senza darle altra cottura, come anco gli antichi quella di fontana. E’ ben vero che chi nell’estate la vuol perfetta non bisogna ser-
virsi di quella appresso la ripa, ma dell’altra, che si cava più in alto. Et perciò non è meraviglia s’ella produce così eccellenti pesci, come è la Trutta e l’unico Carpione, che
si nodriscono, come dicono alcuni, se non d’arena d’oro, ché come scrive Aetio il commune segno che la carne de’ pesci sia buona è che vivino in acqua pura, agitata da
venti e che habbia le ripe arenose, aspere e sassose». (Discorso di peste, cap. XI, passim)
Tutto il passo è modellato sull’Oratio de laudibus Brixiae18, scritta dall’umanista Ubertino Posculo (Bagnolo Mella 1430 – 1504) ed edita nel 1458.
Ho sottolineato i luoghi in cui il testo del Graziolo rieccheggia quello
quattrocentesco ed i loci communes tra le fonti. Si comincia con la salubrità
dell’aria:
«Aether enim (...) et aer qui inferior est ita totum annum temperati
concordesque procedunt ut etiam sanissimos huius agri nostri animantes
cunctos servent et terram feracissimam ad rerum omnium copiam red-
dant». (Oratio de laudibus Brixiae, in P. GUERRINI, op. cit., p. 6).
«L’etere infatti e l’aria che si trova sotto sono per tutto l’anno
così temperate e concordi tra loro che conservano sanissime
tutte le creature della nostra zona e rendono la terra assai feconda per l’abbondanza di ogni genere di frutto» (trad. S. Lingeri).
Si passa poi alla descrizione della flora, varia e rigogliosa, la cui presenza
dona al Benaco le caratteristiche tipiche del locus amoenus, dell’hortus conclusus:
«Colles benignos et vineis et olivetis plenos habet, qui longe spectantibus delectationem
haud mediocrem largiuntur». (Oratio de laudibus Brixiae, in P. GUERRINI, op. cit., p.
8).
Le soavi colline sono piene di vigne e di oliveti che offrono a chi li guarda da lontano uno spettacolo non indifferente. (trad. S. Lingeri)
Per motivi letterarii il “giardino gardesano” viene assimilato a quello di
Corfù19, e a quello mitico delle Esperidi, soprattutto per la presenza dei
limoni20:
«Pometa vero ac paradisos ingressus quis si viderit odoris [correggo la lezione edoris] arboribus et fructiferis consitos fructibusque suavissimis plenos profecto ab Hesperidibus illis, quas ab Hercule aureis pomis spoliatas poetae tradunt, plantaria huc
traslata extimare poterit, quae hic nullo custodita dracone securus quisquis laetus carpit. Hic citra Indica poma gustu sapidissima odore suavissima nascuntur, quae arbores ut semper virentes contra frigora durant, ita et poma sua recentissima custodiunt.
Corcyram insulam perpetuo vere celeberrimam Homerus canit». (Oratio de laudibus
Brixiae, in op. cit.,p. 9).
«Senza dubbio se qualcuno, entratovi, vedesse i frutteti e i giardini intrecciati di alberi profumati e pieni di fragrantissimi frutti, di certo penserebbe che in quel luogo le piante siano state portate da quegli orti delle
Esperidi che, come scrivono i poeti, sono stati derubati da Ercole dei
pomi aurei. E qui chiunque in sicurezza coglie felice i frutti custoditi da
nessun serpente. Qui crescono limoni molto saporiti nel gusto e molto
dolci nel profumo, limoni che gli alberi, rimanendo sempre verdi contro
il freddo, mantengono assai freschi. Omero celebra l’isola di Corcira, famosissima per l’eterna primavera». (trad. S. Lingeri)
Questo passo del Posculo, con l’esplicito paragone mitografico, ritornerà nei poemi cinquecenteschi sul Benaco. Eccolo, per esempio, puntualissimo intertestualmente, nel Sirmio di Stefano Dolcino (1462 – 1508), edito nel 1502:
«Corcyraea putes olere poma, hortosque Hesperidum patere totos». (Sirmio, vv. 485 – 486)
«Penseresti profumino i limoni di Corcira, si dischiudano tutti i giardini delle Esperidi insieme». (trad. S. Lingeri)
E di “albero dei Medi”, alludendo al limone, o al cedro, scrive Pietro Bembo (1470 – 1547) nel suo Benacus21, epillio di 200 esametri dedicato a Gian Matteo Giberti, vescovo di Verona, risalente presumibilmente al 152422: «Continuo Nymphae mensas ante ora Deorum speluncae in medio niveis mantilibus alte consternunt, dapibusque onerant, Dictaeaque plena vina ferunt, referuntque manu, calicesque madentes praecingunt myrto, atque implexis flore coronis purpureoque rosae Medorumque arboris albo, Medorum quondam; sed quae nunc plurima laetas Benaci vestit ripas, non illa caduca fronde virens, suavique auras permulcet odore». (Petri Bembi Benacus, vv. 55 – 63)
«...subito, nel mezzo della caverna, dinnanzi ai volti degli Dei le Ninfe coprono le mense con nivee tovaglie, le colmano di vivande, portano avanti e indietro a piene mani vini dittei e cingono i grondanti calici di mirto e corone intrecciate del fiore purpureo dell rosa e di quello bianco dell’albero dei Medi: anticamente dei Medi, ma che ora veste numerosissimo le rive rigogliose del Benaco – senza verdeggiare, lui, di fogliame caduco – e addolcisce l’aure di soave profumo». (trad. L. Redana).
Sempre di pomi delle Esperidi parla Girolamo Fracastoro (1478? – 1553) nella Syphilis, sive de morbo gallico (edita nel 1530), un poemetto in tre libri di esametri latini in cui vengono trattate, anche con molte allusioni mitologiche, le origini e la cura della sifilide; opera celebre, quella del Fracastoro, in cui si sofferma anche sul Benaco e dedicata proprio al Bembo, ben conosciuta dagli autori successivi, poeti e medici:
«Nè taceran di te miei carmi, o cedro, gloria d'Esperie e selve Mede, e quivi, benchè lodato pria dai sacri vati, non sdegnerai la mia medica Musa. Così verdeggi ognor tua chioma, e folta sempre, e per nuovo fior fragrante, e carca d'auree pendenti poma, orni la selva». (Syphilis, sive de morbo gallico, II, vv. 212 – 218, trad. italiana del 1842).
Del resto, riferimenti al Garda sono presenti un po’ ovunque nei Carmina del Fracastoro, eccone per esempio uno in un carme dedicato a Marco Antonio Flaminio, in cui si parla anche di Gian Matteo Giberti23:
Questo passo del Posculo, con l’esplicito paragone mitografico, ritornerà nei poemi cinquecenteschi sul Benaco. Eccolo, per esempio, puntualissimo intertestualmente, nel Sirmio di Stefano Dolcino (1462 – 1508), edito nel 1502:
«Corcyraea putes olere poma, hortosque Hesperidum patere totos». (Sirmio, vv. 485 – 486)
«Penseresti profumino i limoni di Corcira, si dischiudano tutti i giardini delle Esperidi insieme». (trad. S. Lingeri)
E di “albero dei Medi”, alludendo al limone, o al cedro, scrive Pietro Bembo (1470 – 1547) nel suo Benacus21, epillio di 200 esametri dedicato a Gian Matteo Giberti, vescovo di Verona, risalente presumibilmente al 152422: «Continuo Nymphae mensas ante ora Deorum speluncae in medio niveis mantilibus alte consternunt, dapibusque onerant, Dictaeaque plena vina ferunt, referuntque manu, calicesque madentes praecingunt myrto, atque implexis flore coronis purpureoque rosae Medorumque arboris albo, Medorum quondam; sed quae nunc plurima laetas Benaci vestit ripas, non illa caduca fronde virens, suavique auras permulcet odore». (Petri Bembi Benacus, vv. 55 – 63)
«...subito, nel mezzo della caverna, dinnanzi ai volti degli Dei le Ninfe coprono le mense con nivee tovaglie, le colmano di vivande, portano avanti e indietro a piene mani vini dittei e cingono i grondanti calici di mirto e corone intrecciate del fiore purpureo dell rosa e di quello bianco dell’albero dei Medi: anticamente dei Medi, ma che ora veste numerosissimo le rive rigogliose del Benaco – senza verdeggiare, lui, di fogliame caduco – e addolcisce l’aure di soave profumo». (trad. L. Redana).
Sempre di pomi delle Esperidi parla Girolamo Fracastoro (1478? – 1553) nella Syphilis, sive de morbo gallico (edita nel 1530), un poemetto in tre libri di esametri latini in cui vengono trattate, anche con molte allusioni mitologiche, le origini e la cura della sifilide; opera celebre, quella del Fracastoro, in cui si sofferma anche sul Benaco e dedicata proprio al Bembo, ben conosciuta dagli autori successivi, poeti e medici:
«Nè taceran di te miei carmi, o cedro, gloria d'Esperie e selve Mede, e quivi, benchè lodato pria dai sacri vati, non sdegnerai la mia medica Musa. Così verdeggi ognor tua chioma, e folta sempre, e per nuovo fior fragrante, e carca d'auree pendenti poma, orni la selva». (Syphilis, sive de morbo gallico, II, vv. 212 – 218, trad. italiana del 1842).
Del resto, riferimenti al Garda sono presenti un po’ ovunque nei Carmina del Fracastoro, eccone per esempio uno in un carme dedicato a Marco Antonio Flaminio, in cui si parla anche di Gian Matteo Giberti23:
«Rura, oro, Giberte, tuo Benacea vati
da, viridesque oleas, et multa protege lauro».
(Carmina, VII, vv. 65 – 66)
«Giberti, i campi del Benaco al tuo
vate deh, dona e i verdeggianti ulivi; tu lo ricopri d’abbondante alloro!». (trad. F. Pellegrini)
All’interno dello stretto rapporto tra i versi del Bembo e quelli del Fracastoro si inserisce l’anonimo autore del Sarca24, un poemetto di 619 esametri in cui si narrano l’amore e le nozze tra il fiume Sarca e la ninfa Garda, figlia di Benaco. L’opera, datata intorno al 1517, e di grande valore artistico, costituisce la fonte per i due autori ai quali fu da alcuni attribuita. E in effetti i punti in comune, per lessico e contenuto, sono numerosi. Tra questi, immancabile, il riferimento agli orti delle Esperidi e di Corcira:
«Semper odoratis pendet vindemia citris aurea, surgenti semper subit altera fetu; quaeque super gravibus pomis nova poma recumbunt, prospectu vario tabulata per alta renident. His, quae Massylo quondam servata draconi Herculeae carpsere manus, his naufragus heros Dulichius quae Corcyrae miratus in hortis, invidisse queant. Haec magni regia Sarcae tunc fuit». (Sarca, vv. 187 – 195)
«Sempre la vendemmia pende, a festoni, tra gli odorosi cedri, dorata, sempre con esuberante fecondità ne succede una seconda; e i frutti, che sul peso degli altri frutti ricadono nuovi, in varia vista ridono come su alte spalliere. Li potrebbero invidiare quelli che una volta, custoditi dal drago atlantico, furono colti dalle mani d’Ercole, quelli che il naufrago eroe dulichio ammirò nei giardini di Corfù». (trad. G. B. Pighi)
Nell’agosto del 1541, Jacopo Bonfadio (Gazzane di Salò 1500 – Genova 1550) descriveva in un’epistola25 a Messer Plinio Tomacello, la bellezza della Riviera, con passi pressochè tradotti dal Posculo, dal Bembo e dal Fracastoro, non senza risonanze botticelliane e poliziesche:
«(...) Qui vedrete un cielo aperto, lucente, e chiaro, con largo moto, e con vivo splendore quasi con un suo riso invitarci all’allegria. (...) L’aere similmente vi è lucido, sottile, puro, salubre, vitale, e pieno di soave odore, e massimamente alla Riviera nostra; (...) Il lago è amenissimo, la forma d’esso bella, il sito vago; la terra, che lo abbraccia, vestita di mille ornamenti e festeggiante, mostra d’essere contenta appieno per possedere un così caro dono.(...) Lungo le rive, che sono distinte con belle abitazioni e castelli, e d’ogn’intorno ridono, si vede in ogni stagione andar primavera; seco è Venere in abito più scelto; Zefiro le accompagna, e la madre Flora va innanzi spargendo fiori e odori che danno la vita, della quale sopra vi diceva; e dalle rive rivolgendo la vista verso le piagge ed i colli, che in alto si mostran tutti fruttiferi, e lieti, e beati, pare, che non si possa dire, se non ch’ivi tenga sua stanza la sorella del silenzio e la felicità. I frutti sono tutti qui più saporiti che altrove, e tutte le cose, che nascono dalla terra, migliori. Per li giardini che qui sono, e quei dell’Esperide, e quelli d’Alcinoo, e d’Adoni, la industria de’ paesani ha fatto tanto, che la natura incorporata con l’arte è fatta artefice e connaturale dell’arte, e d’amendue è fatta una terza natura, a cui non saprei dar nome. Ma de’ giardini, degli aranci, limoni, e cedri, de’ boschi, d’ulivi, e lauri, e mirti26, de’ verdi paschi, delle vallette amene, e de’ vestiti colli, de’ rivi, de’ fonti, non aspettate ch’io vi dica altro, perché quest’è opera infinita». (Lettere volgari, I, 6, presso Aldo Manuzio, Venezia, 1544)
Ancora, nel Benacus di Giorgio Iodoco da Bergen (edito a Verona nel 1546), che pure imita in molti passi la Syphilis e i Carmina del Fracastoro, il Bembo e il Sarca, il limone è uno dei doni che Venere porta, traendolo appunto dal giardino delle Esperidi, al dio Benaco per le sue nozze con la ninfa Caride:
« "Ecquis erit pueri potis indagare profundas Medorum sylvas; aut trans Maurusia regna auricomum nemus Hesperidum, quo poma draconum excubiis vigilata ferat? Nec obesse colubri tentabunt, iussisque meis inserviet Aegle; Hesperidum qua nulla magis formonsa, nec ullus Medorum obstabit". […] Ipsa suos alacris Benaco expandit honores et myrtos Paphias […] in gyrum circum spumantia figit littora. Et auratis vernantia rura volemis, rura altis subiecta iugis, ignara pruinae, nescia Sithonii Boreae delegit, et illis sub cura pulchrae Saloes Dryadumque sororum limones citriosque graves, Maurusia mandat germina, et aprico disponit singula tractu». (Benacus, I, vv. 335 – 341; 352 – 361 passim)
«"E quale fanciullo mai potrà esplorare le inaccessibili selve dei Medi? Oppure, oltre i regni mauritani, il bosco dalla chioma dorata delle Esperidi, da dove porterà i pomi vigilati dalle veglie dei serpenti? Questi non cercheranno di opporsi, ed Egle acconsentirà ai miei ordini, Egle, rispetto alla quale nessuna Esperide è più bella, e nessuno dei Medi sarà di impedimento". […] Venere stessa tributa a Benaco i suoi solleciti onori e pianta i mirti dell’isola di Pafo intorno alle rive spumanti. E sceglie terreni primaverili per i frutti ovali dorati, terreni che sottostanno ad alti gioghi montani, difesi dal gelo, che non conoscono il vento di Borea che proviene dalla Tracia. Affida alla cura della bella Saloe e delle sorelle Driadi i limoni, i grandi cedri, i germogli mauritani, e li dispone ad uno ad uno sul tratto soleggiato». (trad. S. Lingeri)
E così Giuseppe Milio Voltolina (Gazzane di Salò, 1536 – 1580) all’inizio del suo poema De hortorum cultura27, in un clima tutto benacense, in cui la presenza di Adone28 denuncia l’influenza del passo del Bonfadio (questi è elogiato dal Voltolina al verso 21 dello stesso libro):
« "Ecquis erit pueri potis indagare profundas Medorum sylvas; aut trans Maurusia regna auricomum nemus Hesperidum, quo poma draconum excubiis vigilata ferat? Nec obesse colubri tentabunt, iussisque meis inserviet Aegle; Hesperidum qua nulla magis formonsa, nec ullus Medorum obstabit". […] Ipsa suos alacris Benaco expandit honores et myrtos Paphias […] in gyrum circum spumantia figit littora. Et auratis vernantia rura volemis, rura altis subiecta iugis, ignara pruinae, nescia Sithonii Boreae delegit, et illis sub cura pulchrae Saloes Dryadumque sororum limones citriosque graves, Maurusia mandat germina, et aprico disponit singula tractu». (Benacus, I, vv. 335 – 341; 352 – 361 passim)
«"E quale fanciullo mai potrà esplorare le inaccessibili selve dei Medi? Oppure, oltre i regni mauritani, il bosco dalla chioma dorata delle Esperidi, da dove porterà i pomi vigilati dalle veglie dei serpenti? Questi non cercheranno di opporsi, ed Egle acconsentirà ai miei ordini, Egle, rispetto alla quale nessuna Esperide è più bella, e nessuno dei Medi sarà di impedimento". […] Venere stessa tributa a Benaco i suoi solleciti onori e pianta i mirti dell’isola di Pafo intorno alle rive spumanti. E sceglie terreni primaverili per i frutti ovali dorati, terreni che sottostanno ad alti gioghi montani, difesi dal gelo, che non conoscono il vento di Borea che proviene dalla Tracia. Affida alla cura della bella Saloe e delle sorelle Driadi i limoni, i grandi cedri, i germogli mauritani, e li dispone ad uno ad uno sul tratto soleggiato». (trad. S. Lingeri)
E così Giuseppe Milio Voltolina (Gazzane di Salò, 1536 – 1580) all’inizio del suo poema De hortorum cultura27, in un clima tutto benacense, in cui la presenza di Adone28 denuncia l’influenza del passo del Bonfadio (questi è elogiato dal Voltolina al verso 21 dello stesso libro):
«Non labor, Hesperides felices quo minus hortos
excolerent, ullus fecit; labor ullus amatos
negligere hortorum cultus, induxit Adonin;
Alcinoum nunquid, cui iam Phoeacia tellus
paruit, et populo dixit qui jura superbo,
sub pingui puduit lactucam condere terra?».
(De hortorum cultura, I, vv. 9 – 14)
«La fatica non fece sì che le Esperidi coltivassero di meno i felici giardini,
né indusse Adone ad abbandonarne l’amata cura; forse che Alcinoo, a cui
obbedì la terra dei Feaci e che impose leggi a un popolo superbo, si vergognò di piantare la lattuga sotto la terra rigogliosa?». (trad. S. Lingeri)
Sempre il Voltolina, nell’Hercules Benacensis (1575), un poemetto di 702
esametri latini in cui Ercole, di ritorno dai giardini delle Esperidi, si ferma sulle rive del Benaco, scrive che l’eroe, innamorato della ninfa Madorine, le dona un ramo dell’albero delle Esperidi, con i pomi ancora attaccati, per abbellire i suoi giardini (Hercules Benacensis, vv. 502 – 570). Il doppio motivo letterario dei giardini delle Esperidi e di Corcira tornerà
anche nel De laudibus Castri Romani et Benaci29 di Tommaso Becelli (1520 –
1579), poemetto di 368 distici elegiaci latini di poco posteriore al Discorso
di peste del Graziolo (fu edito nel 1579):
«Hesperides credas hic tu cessisse Canossis
auricomas sylvas, conspicuumque nemus
(…) hic charitum Peregrinus amor pomaria nutrit,
quaeis sylvae cedant divitis Alcinoi».
(De laudibus Castri Romani et Benaci, vv. 135 – 142 passim)
«Qui crederesti che ai Canossa donassero le Esperidi / orochiomate selve
e boschi incantevoli / qui Pellegrini, delle Grazie diletto,coltiva frutteti, /
cui ben cedono le selve del ricco Alcinoo». (trad. Sala / Salandini)
Sul versante volgare troviamo molte affinità con le opere citate nelle
Rime del filosofo e poeta petrarchista veronese Girolamo Verità30, morto
nel 1552. Come si può vedere, anche il Graziolo, pur mosso da interessi
differenti, non rinuncia all’allusione dotta. E pure è presente l’eziologia
quando, passando dalla flora alla fauna, ovvero ai pesci che popolano il
lago, cita il mito del carpione che si nutre di sabbia d’oro. Il fatto, già
noto nel Quattrocento31, è citato nel testo del Posculo, il quale scrive:
«Et quod subtiles naturalis historiae indagatores tradiderunt, id verum esse haud
parvum argumentum est, auro scilicet pisces hos quos Carpiones vocamus enutriri,
quod non longius hi pisces sic alii per aquas divagantur, sed intra quasi circumscriptos
fines ubi aurum de nostris metallis suppeditatur se continent. Et arenis aureis ut pascuntur ita eas sua tanquam incunabula egredi minime audent. Tagum [correggo la
lezione Iagum] in Hispania; Pactolum in Lydia, et Hermum etiam in Asia flumina poëtae aureas arenas trahere memorant, sed nil ultra de ipsis praedicatur, non eis
incolae ulterius in suos usus praeter aquas perfruuntur. At nos si aurum de metallis
his propter nimiam aquae profunditatem effodere prohibemur, non auri tamen immunes omnino sumus. Pisces enim ex auro, ut ita loquar, nati auroque pasti nobis pro
auro praestantur; hisque non solum urbis nostra copiosa redditur, sed etiam propter
incredibilem eorum bonitatem atque saporem, cum his et Reges et Principes et opulenti viri vesci percupiant, per omnes Italiae partes deferuntur. Et quod mirum est quasi
ex incorrupto certe auro se esse testantur, mensem unum recentissimi conservantur».
(Oratio de laudibus Brixiae, in PAOLO GUERRINI, op. cit. pp. 10 – 11)
«E non è argomento da poco stabilire se ciò che i dotti studiosi di storia
naturale hanno tramandato, cioè il fatto che i pesci che chiamiamo carpioni si nutrano di oro, sia vero. Ciò perché questi pesci, e altri, non si
aggirano troppo vagamente per le acque, ma si circoscrivono, per così
dire, nelle zone in cui si trova, tra i nostri metalli, oro in abbondanza. E si
cibano a tal punto di sabbie dorate che non osano per nulla lasciarle
come se fossero la loro culla. I poeti scrivono che il Tago in Spagna32, il
Pattolo in Lidia33 e l’Ermo34, sempre in Asia, portano sabbie dorate35, ma
non si dice di più riguardo a questi e gli abitanti non godono di altro se
non dell’acqua di questi fiumi. Noi invece se non possiamo accedere all’oro a causa dell’eccessiva profondità (in cui si trova), non siamo tuttavia
esclusi dal tutto dal suo beneficio. Infatti i pesci, nati, per così dire, dall’oro e nutriti con oro, giovano al suo posto a noi (che li mangiamo); e non solo sono offerti abbondantemente alla nostra città, ma anche, per la loro
incredibile bontà e il loro sapore, poiché re e principi e uomini ricchi desiderano cibarsi di questi, sono portati in ogni parte d’Italia. E la cosa incredibile, che dimostra che in essi vi sia un oro pressoché puro, è il fatto
che si conservano freschissimi per un mese intero». (trad. S. Lingeri)
Anche nel Sirmio del Dolcino (vv. 401– 440) compaiono le sabbie dorate:
«Benacum auriferis nitentem arenis». (Sirmio, v. 375)
«Lui che risplende di sabbie dorate». (trad. S. Lingeri)
Quindi si passano in rassegna i pesci che vivono nel Garda:
«Sardae, Carpio, Tructa, Persa, opimae
anguillae orbibus in voluminosis.
Et te suave thymum Thymalle olentem».
(Sirmio, vv. 407 – 409)
«Sardine, carpioni, persici e trote,
pingui anguille ritorte in ampie spire,
te, temolo, che soave di timo
profumi». (trad. S. Lingeri)
A questi, delicati, umili, vengono contrapposti , con un tono moralistico
che denuncia la fonte (Orazio, Satire II, 2, 30 – 49; ma anche Marziale e
Giovenale), pesci (rombo, triglia, storione, branzino...) costosi e pregiati
ma meno buoni e “honesti”. Non c’è alcun accenno però riguardo al
mito del carpione. Accenno che invece è presente nel Sarca, anche se
esso è limitato alla leggenda che questo pesce si nutra di oro:
«Adde Garignani cymbis quicumque frequentant
litora piscosi; ponuntur retia, cessant
cuspide depositi nodosae ab harundinis hami; qua libuit tuto lascivit piscis in unda,
nec timet insidias, impuneque seligit aurum
carpius, in sicca naxae feriantur harena». (Sarca, vv. 271 – 276)
«Aggiungi i barcaioli che frequentano le acque pescose davanti a Gargnano; si ripongono le reti, riposano gli ami staccati dall’estremità della nodosa canna; guizza dove vuole, al sicuro, il pesce, né teme insidie, senza
rischio estrae il suo oro il carpione, sull’asciutta sabbia restano sfaccendate le reti». (trad. G.B.Pighi)
Ma il passo sopra citato del Dolcino confluisce, anche attraverso la mediazione oraziana, nel poema dello Iodoco (Benacus, IV, 35 – 78), il quale successivamente narra la favola metamorfica del salmonide, dedicandola a Girolamo Fracastoro, anch’egli autore di un precedente poemetto (composto intorno al 1535), in esametri latini, sul medesimo argomento36:
«Nunc cape qua serie, quale sit origine cretus. Abdita namque tibi tanti miracula facti et referam divum vindex quid fecerit ira. Hic mihi fas te sit sectari culte Fragastor. Quaeque laconismo super doctaque Thalia scripsisti, longo liceat depromere cantu». (Benacus, IV, vv. 79 – 84)
«Ora apprendi da quale progenie, da quale origine sia nato. Ti è oscura
infatti la meraviglia di un fatto così grande, e ti riferirò cosa fece l’ira vendicatrice degli dei. Qui mi sia lecito seguirti, dotto Fracastoro. Che io
possa narrare con un lungo canto quel che tu scrivesti in modo conciso
sotto la guida della dotta Talia». (trad. S. Lingeri)
A questo punto parrebbe evidente pensare che il Fracastoro sia stato il
primo a inventare o a riportare, attingendo a una leggenda popolare, la
favola, in quanto precedentemente nessuno la cita. Sembra inoltre opportuno segnalare che per quanto riguarda il Dolcino, di origine bussetana, il soggiorno benacense fu una sorta di breve vacanza, in cui presumibilmente non ebbe il tempo necessario per informarsi su eventuali tradizioni gardesane. Questo sembra suggerito da una geografia poetica nel
Sirmio che privilegia la parte meridionale del lago, l’unica che verosimilmente visitò, con sparuti accenni a quella settentrionale. Riguardo al Sarca invece, l’assenza di riferimenti a una favola sul carpione confermerebbe l’anteriorità del poemetto rispetto a quelli del Bembo e del Fracastoro.
Seguendo quindi la fonte, lo Iodoco racconta come il dio Saturno mutò
Carpo e compagni in carpioni perché cercarono di derubarlo dell’oro e la
conseguente avidità del metallo prezioso da parte di questo pesce:
«Iam Iovis Aetherei iussu, sua dona parenti
attulerant Dij, nate, tuo (quibus ipse referta
littora iam cernis) properabat quilibet arces
ad proprias. Tunc et sedes Saturnus avitas (…) repetens, (…) tum convenit illum Ignipotens (fuerat vectus Vulcanus eodem
curru) (…) “Eia age nunc (Saturnus ait) mi Mulciber; ambo (dum vires reparare novas sors improba cogit)
aggrediamur iter pedites. Tu tardipes; at me
vires deficiunt (gelida attenuante senecta
haec membra)”. (…) sic tardi incedunt iuga per daclivia montis. Dum residem subeunt umbram flaventis olivae,
lapsaque membra quies instaurat, littora pone
nautas conpiciunt (iam tum fabricare carinas
et sulcare fretum monstrarat docta Minerva).
“Ecquis erit vestrum (Saturnus clamat) amici,
ulteriora lacus qui nos ad littora ducet?”.
Ocyus accurrunt, pacta mercede, carina
excipiunt, pergunt, pressis sub pectora remis.
Iam medium tenuere lacus, imbellia membra
ut videre virum nautae (concusserat atra
corda fames auri) “quo fures tenditis, auro vallati?” navarchus ait. (…) Carpio dictus erat (cunctos quia carpere lintre
sueverat acceptos) qui verba scelesta tonabat.(...)
Aurum dum toties truculento gutture clamant
dumque nimis terrent, dum vim dextrasque rapaces
Dijs inferre parant, raptoque potirier auro,
percitus ira “aurum – dixit Saturnus – habeto,
gurgite sed summo gens perfida, gurgite quaere et depasce aurum, nec sit tibi vilior auro esca, sed eniteant etiam tua tergora guttis
auratis, foris atque intus satiata libido sit tua, quaesito nec destituaris ab auro”.
Dixit et exili depressit corpora forma. Et tenui vestit corio. Quum rursus hiante ore parant aurum nautae extorquere, repente
vox fugit et mutos coguntur pandere rictus.
Mutato capiti nectuntur perfida terga,
exempto collo in bifidam vestigia caudam
vertuntur duraeque manus, hirtique lacerti in pinnas; venter longam formatur in alvum.
Villosi in tenues squammas mutatur amictus.
Erubuit, nec ferre suum gens impia crimen
Sustinet, aut Divum faciem, se Carpio primus
praecipitat sequiturque suum caput impia turba.
(...) Sic hi se liquidi sub gurgitis ima
praecipitant, quaeruntque aurum. Nec copia defit.
Namque auri aeterna foetae scaturigine venae
cautibus emanant imis et plena ministrat pabula. Non alga vili, non nescitur esca
Carpio mortali. Tantum radiante matallo
auri se fovet. Et culpae sibi conscius, imis
gurgitibus degit, lucemque hominesque perosus».
(Benacus, IV, vv. 80 – 167 passim)
«Già i celesti, per ordine di Giove, avevano portato i loro doni, figlio, al
padre (e tu stesso vedi le coste abbellite da questi), e ciascuno quindi si
affrettava a tornare alle proprie dimore. Allora pure Saturno si dirige alle sedi avite e viene con lui anche l’Ignipotente, Vulcano. “Suvvia, mio caro
Mulcibero, – dice Saturno – mentre un sorte sfortunata ci costringe a recuperare nuove energie, andiamo tutti e due a piedi, tu zoppo, mentre a
me mancano le forze, con queste membra fiaccate dalla gelida vecchiaia”.
Così lenti scendono per i gioghi scoscesi del monte Baldo. Mentre stanno
sotto la pigra ombra di un fulvo olivo e la quiete si diffonde per le stan-
che membra, dietro la spiaggia vedono dei marinai (già allora la dotta Minerva aveva insegnato loro a costruire scafi e a navigare). “Chi di voi,
amici (chiama Saturno), ci può portare alla sponda opposta del lago?”.
Quelli accorrono velocemente, stabilito il prezzo, prendono la barca, la
spingono in acqua e iniziano a vogare con i remi. Già erano in mezzo al
lago quando i marinai videro i due uomini indifesi (una insaziabile fame
di oro aveva preso i loro cuori). “Dove andate, ladri, così pieni di oro?”
disse il capitano. Era chiamato Carpo, perché era solito carpire e rubare a
tutti coloro che accoglieva nel suo battello.Tuonava parole blasfeme.
Mentre più volte pretendono l’oro con grida feroci e non temono nulla,
mentre si preparano a portare ai due dei la loro violenza, le mani rapaci, e
a impadronirsi dell’oro rubato, spinto dall’ira, dice Saturno: “prendetevi
l’oro, ma in fondo al lago, gente odiosa, sul fondo cercatelo e nutritevi di
esso, per voi non ci sia altro cibo. E anche le vostre schiene risplendano
di punti dorati. Fuori e dentro sia saziata la tua sete, cercherai l’oro e non
ti staccherai mai da esso”. Così disse, e i corpi iniziarono a prendere una
forma esile. Si vestono di una pelle sottile. Quando i marinai ancora si
preparano con la bocca aperta a estorcere l’oro, la voce subito fugge e
sono costretti a spalancare mute fauci. Alla testa trasformata s’attaccano
perfidi dorsi, dal collo scomparso i piedi si mutano in una coda biforcuta,
le dure mani e le braccia ispide si trasformano in pinne. Il ventre si allunga in un alveo. I peli divengono squame delicate. Empi arrossiscono e
non riescono a tollerare il loro crimine, né lo sguardo degli dei. Per primo
Carpo si tuffa in acqua, quindi i compagni blasfemi seguono il loro capo.
Così questi si gettano nel fondo del liquido gorgo e cercano l’oro. E non
manca mai. Vene di oro ne fanno scaturire dalle rocce profonde in eterno e offrono sempre cibo. Il carpione non conosce vili alghe né esche
mortali. Si nutre solo dello splendente metallo e consapevole della sua
colpa resta negli abissi remoti, odiando la luce e gli uomini».(trad. S. Lingeri)
Questa dunque è la versione più nota del mito. Si può notare una vistosa
somiglianza con l’episodio narrato da Ovidio in cui Dioniso trasforma in
delfini i pirati tirreni (Metamorfosi, III, 597 – 691). Un riferimento al poemetto del Fracastoro lo ritroviamo nell’epistola già citata del Bonfadio:
«Non vorrei però, che per avventura credeste che avessi tolto io a lodarlo; prima, perché sarei presuntuoso; che lo scrivere del Carpione solo affaticò la mano e l’ingegno del Fracastoro». (Lettere volgari, I, 6, presso
Aldo Manuzio, Venezia, 1544)
Altra interessante citazione si trova nel Dialogo dei colori, di Lodovico
Dolce (1508 – 1568), edito a Venezia nel 1565:
«COR(nelio): Poi i Carpioni nascono nel Lago di Garda, che si può dire
nella sua lunghezza, e larghezza un mare, e fa alle volte maggior fortuna,
che non fa esso mare. E questo pesce si dice nudrirsi di oro, oltre che è
raro, e di sapore perfettissimo; e di tanta stima che fu celebrato dal Fracastoro. E ’l Pierio ne’ suoi versi latini finse questa favola: la quale è, che
Catullo partendosi da Sermione, e navigando per il Lago, hebbe un fortunale: per il quale affondandosi la sua barchetta, salvandosi egli per esser
vicino al lito, fece perdita di alcuni suoi libri, i quali erano scritti in carta
pergamina; e questi libri si trasformarono in carpioni.
MAR(io): Non so, se la favola stia propriamente a questo modo: ma so
bene, che egli fa questa trasformazione: la quale è ridicola, percioche al
tempo di Catullo gli Dei non facevano piu queste mutationi. E lasciando
il motteggiare, danna molto il Bembo l’audacia di alcuni moderni, che si
hanno presa l’autorità di far trasformationi, parlando puntualmente del
Pontano, che molte ne fa nella sua Urania; e tassando ancora copertamente il Sannazaro; che fa la trasformatione delle Ninfe in salice37. Ma
che dinoterebbe il Carpione?
COR. : Che colui, a cui si mandasse, fosse di bello e grande animo, per
rispetto dell’oro; di cui dicono questo pesce nudrirsi, e raro e segnalato in
virtù, per essere il medesimo pesce di così grato cibo e sapore». (Dialogo dei colori, appresso
Gio. Battista Marchio, Venezia, 1565, p. 56 )
Accanto alla favola narrata dal Fracastoro, il Dolce ricorda quella del Pierio, ovvero Pierio Valeriano, umanista bellunese (1477 – 1560) che nel
1549 compose il Carpio, un poemetto latino appunto sul carpione. Non si
sa tuttavia se la variante del mito legata a Catullo fosse attinta dal Valeriano a una leggenda popolare oppure invenzione dell’autore38. Invenzione
certa dell’autore è invece la versione39 presente nell’Hercules Benacensis del
Voltolina, il quale, pur avendo ben presente il Benacus dello Iodoco, con
cui mantiene una certa affinità di situazione, cambia la leggenda del carpione fondendo il rapporto letterario tra il Benaco e gli orti delle Esperidi con l’oro di cui si nutre il pesce e i pomi sottratti da Ercole. Ne consegue che l’eroe divino, e non più Saturno, divenga il protagonista della trasformazione:
«Alcides, postquam jussis agitatus iniquis
duri Euristei, nec non odiisque novercae
(…) forte iter hac fecit, patrias rediturus ad arces
Thebarum; heac ubi vero lacus laetissima nostri
aequora prospexit. (...)Italiae hanc re vera oram ridentis ocellum,
naturae et laetantis opus Tyrinthius heros defessus statuit penitus cognoscere, et aegras
instaurare mora hic vires animisque vacare.
(…) Tunc forte Alcides Benaci ad litora venit,
aurea ab Hesperiis secum quae carpserat hortis
poma gerens, viridi convulsa ex arbore fronde. Videre ut fures hunc aurea mala ferentem, ecce avidi huc remis subito pepulere biremem
quo teneatque rogant iter. (…) Instabilem ingressus cymbam Tyrinthius heros
jussit in adversum litus traducier; illi tunc ilares fugiunt spatiosa per aequora remis,
jamque procul retroque procul cava litora linquunt.
Interea tentat dux horum Carpius illi nodosam, duramque dolo subducere clavam,
quam manibus, pondus simulans tentare jacentis,
suscipit.(…) Inspicit insolito rutilantia poma colore,
...inde loquaci solicitat nutu socios jam viribus uti. (…) Unanimes stringunt enses, audentque ferire
ignotum Alciden; sed bili percitus acri,
atque furens animis heros Tyrinthius ultor
unguibus haec subito piratica monstra cruentat,
et miseros nudat, membris vi veste revulsa.
Tunc illi exanimes prostrati, pectora fletu
nuda rigant, vastoque mari se mergier orant.
(…) Quos Deus en furum, gentem miseratus amicam,
protinus in parvos contracto corpore pisces,
non squama, ut reliqui, contectos pectora pisces,
nam fuerant nudi, transmutat; quique pudore
criminis admissi subter vada caeca profundi se trepidi condunt; quos (si fas credere famae est)
auri sacra fames et pisces improba vexat;
quorum terga notat contractus ab ictibus ater
Herculeis livor; qui denique in aequore servant
et ducis, et patriae, propria et sua nomina pisces». (Hercules Benacensis, vv. 9 – 100 passim)
«L’Alcide, dopo essere stato perseguitato dagli improbi ordini del duro
Euristeo e dall’odio della matrigna Giunone, fece per caso un viaggio da
queste parti per ritornare alla patria rocca di Tebe. Ma quando vide queste stupende distese del nostro lago, l’eroe tirinzio decise, stanco, di conoscere a fondo questa perla della ridente Italia, di recuperare le forze
spese indugiando in questo luogo e di dedicarsi un poco all’ozio. Allora
l’Alcide per caso venne alle coste del Benaco, recando con sè i pomi aurei
che aveva preso nei giardini delle Esperidi, ancora attaccati alla verde
fronda. Quando i ladri lo videro che portava i pomi dorati, ecco che avidi
subito spingono da lui la barca coi remi e gli domandano dove sia diretto.
L’eroe tirinzio, salito sullo scafo instabile, ordina di essere portato sulla
sponda opposta. Quelli allora felici solcano con i remi le ampie acque e
già si lasciano indietro lontana la cava riva. Intanto il loro capo, Carpo,
cerca di portargli via con l’inganno la clava robusta e nodosa; la prende
con le mani fingendo di provarne il peso. Vede i frutti splendenti dell’insolito colore e quindi con un cenno sollecita i compagni ad aggredirlo.
Insieme impugnano le spade e osano ferire l’Alcide ignari della sua identità. Ma l’eroe tirinzio, preso da bile collerica e rabbioso subito insanguina con le unghie quei pirati e miseri li denuda strappando dai corpi le vesti a forza. Allora quelli, in ginocchio, esanimi, rigano i nudi petti di pianto e chiedono di essere immersi nel vasto lago. Ecco che allora il dio,
provando compassione per i ladri come se si trattasse di gente amica, li
trasforma immediatamente, dopo averne ridotto il corpo, in piccoli pesci,
ma senza squame, dal momento che erano nudi. Ciascuno di loro per la
vergogna del crimine commesso si getta veloce negli abissi oscuri. Li tormenta, se è lecito credere a quanto si dice, una fame maledetta e insaziabile di oro e un nero livido prodotto dai colpi di Ercole compare sulla
loro schiena. Questi pesci infine conservano il nome del loro capo e del
loro paese [n.d.t. carpione, Carpo, Campione]. (trad. S. Lingeri)
Come si può notare i racconti sono simili, pur con delle varianti. Tra queste porrei all’attenzione il luogo da cui salpano i protagonisti: nello Iodoco, che visse presso Verona, è imprecisato, ma di sicuro sulla sponda veronese, in quanto i due dei scendono dalle pendici del Baldo; nel Voltolina (salodiano) Ercole si trova a Campione, sulla sponda bresciana. Comunque, direi sorridendo, alla fine si giunge in entrambi al centro del lago. Concludo con un passo della già citata lode40 del Becelli, il quale, pur non indugiando su alcuna leggenda, ribadisce il concetto dell’unico Carpione:
Come si può notare i racconti sono simili, pur con delle varianti. Tra queste porrei all’attenzione il luogo da cui salpano i protagonisti: nello Iodoco, che visse presso Verona, è imprecisato, ma di sicuro sulla sponda veronese, in quanto i due dei scendono dalle pendici del Baldo; nel Voltolina (salodiano) Ercole si trova a Campione, sulla sponda bresciana. Comunque, direi sorridendo, alla fine si giunge in entrambi al centro del lago. Concludo con un passo della già citata lode40 del Becelli, il quale, pur non indugiando su alcuna leggenda, ribadisce il concetto dell’unico Carpione:
«Lauti autem cum sint omnes, lautissimus est, qui unus in his solis degere fertur aquis. Unus et ex auri venis nutritur in ipsis, et qui una hac esca est carpius dignus ali. Nam veluti fulvuum labem non continet aurum, hoc ita pisce nihil purius esse potest, est certum latis spatium quod cingitur undis, Graia aliqui tretum voce vocare solent, quod cava sit rupes fundo, et vena aurea in imo, gaudet ubi hic sedem piscis habere suam, nilque timet summo cum ventus in aequore saevit, et quatit instabiles unda agitata rates, altius, at tectus, curvo et munitus ab antro tuta in tranquillis ocia degit aquis, exercens varios dulci cum compare ludos, et parvam secum nare docens sobolem, voce alij Tritum potius dixere latina, hae quia navigijs saepe terantur aquae, retia quippe frequens iacit hic piscator avarus; carior ex hoc quod gurgite praeda venit, non aliud genus hic piscis, quam carpio pingis». (De laudibus Castri Romani et Benaci, vv. 103 – 124)
«Quando tutti siano squisiti, assai più lo è questo che unico si dice in
queste acque vivere; in esse di vene d’oro il carpione si nutre e solo di
tal cibo si degna mangiare, chè, come il giallo metallo che non ha macchia, nulla può di questo pesce esser più puro. Vi è uno spazio da vastità di acque chiuso che “Treto” taluno chiama con greco accento, perché nell’antro sul fondo vena corre d’oro. Qui di sua dimora lieto è il
carpione e nulla teme quando il vento in alto infuria e violenta l’onda
scuote l’instabile barca: coperto e da arcuato antro protetto / trascorre
ozi sicuri nell’acqua tranquilla, col caro compagno gioiosamente giocando e ai piccoli insegnando a nuotare con sé. Altri con voce latina
“Trito” chiamano il sito chè le acque ne sono da navigli spesso percorse, Qui, cupido, il pescatore getta le reti poi che preziosa dal gorgo
preda ne viene. Qui nessun altro pesce che il pingue carpione; a lui
l’onore, a lui questo solo luogo spetta». (trad. Sala - Salandini).
da Discorso di Peste, Ateneo di Salò, 2009
NOTE
18 Il testo latino è pubblicato, con molti errori di trascrizione dal manoscritto Queriniano latino D VI 28, in PAOLO GUERRINI, Fonti per la storia bresciana, Brescia, Edizioni Del Moretto, Vol. II, 1927.
19 Corcira, isola di Alcinoo, re dei Feaci; la descrizione dei giardini nel celebre passo omerico (Odissea, VII, 114 – 135) costituisce la fonte per tutti gli autori cinquecenteschi.
20 Per l’identificazione della “mela della Media” e dei pomi d’oro delle Esperidi col limone, rimando all’articolo di GIORGIO MINELLI in “L’Archibugio”, n° VIII, ottobre 2005, p. 13. Pare opportuno tuttavia far notare che una variante rara del mito tende a identificare i pomi aurei con le mele del cotogno (Cydonia vulgaris). Secondo altri ancora sarebbero stati cedri. Tra questi, Giovanni Pontano (1429 – 1503), il quale compose un celebre poema didascalico in due libri di esametri latini sulla coltivazione dei cedri dal titolo De hortis Hesperidum. È inoltre interessante segnalare un precedente elogio del Benaco, ovvero un carme di 34 esametri composto da Guarino Veronese nel 1419, dedicato a Ludovico Marchenti. Nel testo non vi sono riferimenti agli orti delle Esperidi, il che può far ipotizzare che sia stato proprio il Posculo il primre che il passo del Bembo qui citato sarà imitato dallo Iodoco in Benacus, I, 46 – 132.
22 Redazione ampliata nel 1528.
23 GIROLAMO FRACASTORO, Carmina, Verona, , Edizioni di vita veronese, a cura di F. Pellegrini, 1954. Tra le altre citazioni del Benaco, ricordiamo Carmina, XIII, 3 – 7 (Sarca e Benaco insieme); XVI, 33 (Saturno sul Benaco); XXVII, 1 – 3 (Gian Matteo Giberti in una grotta sul Benaco).
24 “Sarca, poema del XVI secolo, a cura di G.B.Pighi, Arco, 1974 ”. Stupenda edizione, con testo latino, traduzione italiana e note del Pighi (e traduzione tedesca di K.Ziegler). Riguardo alla paternità dell’opera, tra i nomi del Bembo soprattutto, ma anche del Fracastoro, del Beazzano, del Navagero, etc, il Pighi sembra indirizzarci, con il consueto e grande acume filologico, verso l’attribuzione a Niccolò D’Arco (1479 – 1546).
25 Per un breve profilo biografico del Bonfadio cfr. “CARLA BORONI/ M. COMINI, Brescia contro, Brescia, La compagnia della stampa, Massetti Rodella editori, 2000, p. 39 e ss. ” .
26 Questa lettera costituirà la fonte per il sonetto di Gian Giorgio Trissino dedicato ad Isabella d'Este in vacanza sul Garda.
27 “La coltivazione degli orti, recata in versi italiani da Gaetano Gargnani, Salò, per Bartolommeo Righetti, 1813”. Contiene tutte le opere poetiche del Voltolina: il De hortorum cultura, poema in tre libri sulla coltivazione dei giardini, l’egloga piscatoria Misetus, l’ode Isis e l’Hercules Benacensis.
28 La citazione di Adone da parte del Bonfadio, e quindi del Voltolina, è una vera perla di erudizione. In De hortis Hesperidum I, 68 e ss. infatti, il Pontano si inventa il mito in cui Venere trasforma il corpo morto dell’amato Adone in cedro. L’allusione pertanto è davvero assai dotta e preziosa.
29 TOMMASO BECELLI, De laudibus Castri Romani et Benaci, a cura di G. Sala e F. Salandini, Comune di Costermano, 2006.
30 Cfr. LAMBERTO CARLINI, Girolamo Verità filosofo e poeta veronese del XVI secolo, Verona, 1905.
31 In particolare, stupisce un poco la citazione presente nell’Orlando innamorato di MATTEO MARIA BOIARDO (prima ediz. 1483): «sotto terra il manda (sott. l’oro) a l’alti monti, / dove se cava poi con gran fatica; / e ne’ fiumi l’asconde e dentro a’ fonti, / e in India, dove il coglie la formica. / Abada e guarda ben che sian disgionti, / che ciascaduno un pesce ne nutrica: / e vo’ che sappi il nome per ragione: / timavo è l’uno e l’altro è il carpione. / Questi due pesci viveno d’or fino». (Orlando innamorato, I, XXV, 6 – 7)
32 Per le sabbie dorate del Tago (lat. Tagum; spa. Tajo), cfr. CATULLO, 29, 19; SENECA, Thyestes, 354 -355 «aut unda Tagus aurea / claro devehit alveo»; LUCANO, Pharsalia, VII, 755 «quidquid effodit Hiber, quidquid Tagus exspuit auri», che il Posculo rieccheggia. L’immagine fu celebre e citata da molti scrittori spagnoli (N.B. spagnoli erano anche Seneca e Lucano!). Tra questi, Garcilaso de la Vega (per cui rimando al mio articolo su “L’Archibugio” n° XVII, luglio 2008), amico, attraverso Antonio Telesio, del Parrasio, il quale dedicherà al Dolcino un epigramma latino.
33 Per le sabbie dorate del Pattolo, cfr. VIRGILIO, Eneide, X, 142 «Pactolusque inrigat auro»; OVIDIO, Metamorfosi, XI, 87 – 88 «Pactolonque petit, quamvis non aureus illo / tempore nec caris erat invidiosus harenis»; PROPERZIO, III, 18, 28 «aut, Pactoli quas parit umor, opes»; I, 6, 32; I, 14, 11; Pattolo e Tago insieme in GIOVENALE, V, 14, 298 – 299: «aurum / quod Tagus et rutila volvit Pactolus arena» e in TOMMASO BECELLI, De laudibus Castri Romani et Benaci, 95 – 96 «non haec Pactolo rutilantes flumine arenas, / aurifero non haec invidet unda Tago».
34 Riguardo all’Ermo, cfr. VIRGILIO, Eneide, VII, 721; Georgiche II, 137; ERODOTO (V, 101) dice che riceve le acque dal Pattolo.
35 Vale la pena riportare come descrive il Fracastoro un fiume sull’isola di Ofiri: «D'un fiume al corso, che nel vasto letto / fulgide arene d'oro al mar travolve», Syphilis, sive de morbo gallico, III, 139 – 140.
36 GIROLAMO FRACASTORO, La leggenda del carpione, Verona, Stamperia Valdonega, 1966; cfr. MARIO ARDUINO, La navigazione benacense nell’antica poesia. Il poemetto figura inoltre come il quinto dei Carmina nella prima edizione veneziana del 1555.
37 A leggere quanto scrive il Dolce ci si domanda quanto il Sarca, che si chiude proprio con un elogio del Pontano e del Sannazaro, possa essere attribuito al Bembo.
38 Nell’articolo di V. CAVAZZOCCA MAZZANTI “Catullo, Quinzia e i carpioni – Brescia, rassegna mensile illustrata, anno III, n° 11, novembre 1930 ” si racconta, purtroppo senza dichiarare da dove si sono prese le informazioni, vizio in verità assai fastidioso, che i carpioni si sarebbero cibati delle lacrime di una fanciulla amata da Catullo, Quinzia, la quale pianse pensando che l’amato fosse in pericolo. Da allora le loro carni sarebbero divenute di ottimo sapore.
39 Questa è riassunta, da L. IMBRIANI, che però non dichiara la fonte, nell’articolo “Siesta di Ercole sul Benaco – Rassegna dell’Ente Provinciale del turismo, anno 1, n° 1, Novembre 1949, S.T.E. Vanni, Brescia”.
40 L’opera, dedicata a Francesco Nogarola, è preceduta da un epigramma del Nogarola stesso, il quale, ai vv. 5-6, scrive: «Si liquidas Benaci undas, nantesque per illas / quos auro pisces, vivere fama refert».
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AA. VV. Poeti latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Ricciardi, Milano-Napoli, 1952
AA. VV. Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Ricciardi, Milano-
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