1 Si danno qui alcuni brevi cenni sulle origini e sulla nascita del poeta. Innanzitutto oscilla, secondo uso comune del tempo, la grafia della sua onomastica. Al nome di battesimo, il BRUNATI aggiunge Girolamo, traendolo dal suo registro battesimale; riguardo al cognome, accanto a Milio, troviamo attestato anche Mejo, Meio e Mileo (nel GRATTAROLO) in volgare e Milius, Mellus (per paronomasia con mel-mellis, cioè miele, in Orazio Pellegrino) ed Aemilius (in Pietro Alberti) in latino. Il soprannome Voltolina deriverebbe dalla terra di origine, la Valtellina appunto, come scrive il BRUNATI: «di famiglia originaria della Valtellina, e perciò Voltolina soprannominato. Nacque egli in Salò da Lazzaro Mejo il dì 11 gennaio 1536»; e così sempre il BRUNATI chiosa in due note: «se Tellino lo denomina Pietro Alberti suo coevo, in un epigramma che sta innanzi a’ libri De hortorum cultura (percurens suaves dulcis Telline libellos), dovrà tenersi per certissimo che egli fosse nato di famiglia ne’ tempi addietro dalla Valtellina venuta a stanziarsi a Salò. Il Porcacci nominava Voltolina la Valtellina, e il Cluverio Vallis plerumque, notava, dicitur a vulgo Voltolina: e ognun sa che così chiamasi tuttavia corrottamente quella valle, e Voltolini i suoi abitatori» e «il conte Gian Battista Giovio (Gli uomini della Comasca illustri, p. 149. Modena 1784) diceva il Mejo nativo di Traona, terra della Valtellina spettante alla diocesi di Como. [...] Noi il diremo di famiglia originaria della Valtellina, e forse della terra di Traona». Il FAPPANI però riporta anche un’altra versione: «di Lazzaro, chiamato “il Voltolina” secondo alcuni per l’origine della sua famiglia dalla Valtellina, secondo Guido Lonati dal nome di una contrada omonima di Gardone Riviera usato per indicare altre famiglie di Maderno e di Salò». Per quanto concerne la sua nascita, la data più accreditata sembra essere, come già detto, l’11 gennaio 1536 (BRUNATI e STORIA DI BRESCIA t. II, p. 593); il FAPPANI indica il medesimo giorno, ma dell’anno 1563, il che si tratta quasi sicuramente di refuso di inversione per 1536; il GARGNANI, nella Prefazione alla sua edizione del 1813, indica invece il 23 aprile 1549 e un nome differente del padre, ovvero Cristoforo Francesco.
2 Su tale argomento, ampiamente trattato, si rimanda oltre alla BIBLIOGRAFIA. Ci si limita in questa sede, per imposta brevità, a riportare quanto scrive la STORIA DI BRESCIA (t. II, p. 511): «già nel 1543 Jacopo Bonfadio [lettera 24 novembre 1543 al Conte Fortunato Martinengo] aveva pensato alla creazione di un’accademia sulle rive del lago amato: ma fu uno dei tanti sogni nella vita dello sfortunato scrittore. Un’accademia nacque forse poco dopo a Salò circa il 1545, con il nome di Accademia dei Concordi, che si dice fosse presto assorbita dalla più fortunata Accademia degli Unanimi (1564), nel 1573 anzi le due Accademie si fusero ufficialmente, fondata con altri giovani letterati e musicisti da Giuseppe Melio Voltolina». Si confronti con il BRUNATI, e con FAPPANI: «tornato a Salò, con altri diciotto giovani il 26 maggio 1564 fondava l’Accademia Unanime o Concorde, di cuifu prima rettore o preside, nel quale ebbe il titolo accademico di “odioso”». Come si vede il Bonfadio è considerato il promotore, almeno ideale di dette Accademie, riguardo alle cui origini si affiancano altri motivi; citiamo in tal proposito A. BONOMI: «l’eventuale influsso esercitato sulla cultura locale dal letterato [Jacopo Bonfadio] che, seppur spesso assente fisicamente dalla zona, doveva essere ben informato dei dibattiti in corso sia per la rilevanza della sua famiglia, sia per i suoi legami con i centri culturali veneti assai influenti anche sul Garda, territorio non secondario della Repubblica Veneta. [...] sarebbe illuminante poter ricostruire il quadro culturale che ha portato alla nascita delle Accademie in quel di Salò. Queste non furono semplicemente la conseguenza di una emulazione di quanto avveniva nelle città della Serenissima Repubblica o di altre parti d’Italia, ma anche lo sbocco naturale del concorrere di ingegni del luogo, favoriti certamente dalla diffusione delle opere a stampa prodotte da quegli abili e versatili stampatori provenienti da diversi centri della Riviera (in ATTI DEL CONVEGNO, Jacopo Bonfadio a cinquecento anni dalla nascita, pp. 32-33)». L’influenza del Bonfadio quindi, l’importanza di Salò, capitale della Magnifica Patria e l’attività degli stampatori sono i fattori determinanti per la nascita delle Accademie, ai quali ci sentiamo di aggiungere, andando un poco più indietro, il magistero (prima del 1506) in Salò del Pilade Boccardi, commentatore, tra gli altri, di Esiodo, autore di una Grammatica latina, scritta forse proprio sul Garda, e di una Genealogia deorum, ovvero un compendio di mitologia in cinque libri di distici latini, certo opera di scarso valore letterario, ma che non può essere ignorata in relazione agli interessi particolarmente eruditi degli umanisti salodiani.
3 La notizia è riferita dal GRATTAROLO, contemporaneo e amico del Voltolina. Così nella Prefazione il GARGNANI: «una gagliarda passione amorosa invaghillo di Isabella Socia, a cui dedica la sua Coltivazione degli Orti. Questo innamoramento, come lo dice egli stesso, il rese poeta; ma in appresso, qual è che la cagion ne fusse, gli tolse il cervello, secondoché riferisce Bongianni Grattarolo suo amico». Più esaustivo e convincente il giudizio del BRUNATI: «così parrebbe che [...] fino al 1586, in cui stampava il Camilli, il Mejo avesse mentem sanam in corpore sano. Il Gratarola però nella sua Storia della Riviera da lui scritta nel 1587, ci fa credere che il Mejo fosse già uscito di cervello: e il Gargnani credette, che il suo innamoramento per Isabella Socia da lui celebrata fino alla nausea e nei libri della Cultura degli Orti, e nel poemetto Iside, e in altre poesie italiane, qualunque ne fosse la cagione, gli togliesse appunto il cervello. Nè forse fu altrimenti. Sebbene possa parere che una cotal fiamma, pel volgere di forse trent’anni, dovesse non che spegnersi farsi cenere. Che che se ne fosse, null’altro più m’è venuto fatto di sapere de’ fatti e della vita di lui, néil quando pure della sua morte».
4 Milio la chiama Isabella, Isella e Isis (ovvero Iside); ci sentiamo di affermare che tali varianti siano dovute per lo più ad esigenze metriche.
5 De hort. Cul. I, 4-5: «Vieni Isabella, decoro unico della schiera di vergini. Qui tu apprenderai come si coltivano i giardini».
6 De hort. Cul. I, 22-3: «Suvvia, vieni dunque, Isabella, mio amore (non fuggire, ti prego), ti insegnerò la cura dei giardini».
7 De hort. Cul. III, 445-451: «questo cantavo, Isabella, sulla coltivazione dei giardini, mentre Veniero deteneva il potere sulla nostra Riviera, tre volte sacro e santo, unico degno di dispensare leggi per mare e per terra; lui che ci ha portato secoli d’oro, garante illustre di pace e giustizia; questo cantavo, io che ti adoro ammirando la tua bellezza e mi dispiaccio se non posso innalzarti fino all’Olimpo immortale».
8 Virgilio, Georg. IV, 559-566.
9 Mis. 29-32: «solo io rimango sveglio, così agitato da innumerevoli ansie, e a me nessun papavero può portare la quiete. Ah, quante volte pensai di porre fine a tanto dolore con un coltello o con un cappio!». Quanto ai versi 31-32, si confronti Ovidio, Remedia Amoris, 17-19.
10 Mis. 34-35: «mi chiesi se mai fossero state le leonesse di Libia ad aver generato Isabella. O una tigre del Caspio?». La prima immagine è tratta da Catullo, 60, 1-3: «Num te leaena montibus Libystrinis...procreavit»; l’altra deriva da Virgilio, Aen. IV, 366/367: «perfide, sed duris genuit te cautibus horrens / Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres».
11 Mis. 43-46: «Anche i Lestrìgoni, il Ciclope e ogni barbara terra accolsero marinai ignoti tormentati dal mare: Isabella può essere più feroce di un Lestrìgone e negarmi una salvezza che si accontenta di un solo sorriso?» Il paragone coi Lestrigoni (cfr. Ovidio, Met. XIV, 233-240) è piuttosto inusuale in ambito amoroso. Per il Ciclope vedi testo subito sotto.
12 Mis. 55-57: «Ah quante volte Nisa mi mandò il suo saluto con un fiore! Ah quante volte Neera mi diede di persona le sue letterine con cui voleva cambiare il mio unico amore per te!».
13 Mis. 132-133: «dunque, Miseto, felice prenditi un’altra fanciulla, dato che l’ingrata Isabella disprezza il tuo amore».
15 Isis 60-68: «così se faccio come le falene, che volano verso la loro morte e il loro destino per l’eccessivo amore della luce, di che ti meravigli, dal momento che la mia fanciulla con i suoi occhietti lucidi può rendere scuro persino il sole? E quando li guardo, come le falene quando si congiungono col desiderato fuoco, disperato brucio assai miseramente». La similitudine è piuttosto rara nei poeti latini; un modello potrebbe essere il bellissimo esametro palindromo di un anonimo medievale sulle falene: «in girum imus nocte et consumimur igni»; ma tale fonte ci sembra più suggestiva che certa.
14 Isis 35-42: «Quale sollievo c’è per me nei dolci flauti? Quale, per me misero, cui non è mai stato possibile vedere Isabella ben disposta, ma anzi sempre più crudele nei miei confronti; crudele come fu Dafne con Apollo che suonava la lira, o Diana con il giovane al quale cinse il capo infelice col doppio corno e che fece divorare dai propri cani»
16 Viene alla mente «E pur mi giova/ la ricordanza, e il noverar l’etate/ del mio dolore» di Leopardi (Alla luna, 10-12), che probabilmente non leggeva il Voltolina. L’idea del beneficio del ricordo ribalta un tema diffuso tra antichi e medievali, espresso, tra i molti, in Dante, Inferno, V, 121-123 «Nessun maggior dolore/ che ricordarsi del tempo felice/ ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore», riprendendo una massima di Virgilio (Aen. II, 3-4; IV, 647-705) o di Boezio (De cons. phil. II, 4, 2).
17 Isis 130-142: «ma se come insegna il medico Nasone, quando risana coi dotti versi il giovane ammalato, decido di voler fare a meno di Isabella, ecco subito il sangue mi si gela nelle vene, e le gote perdono il loro colorito, e gli occhi si gonfiano di lacrime; subito mi prende una rigida ansia, una fredda paura, un triste dolore; vengono afflizione e malinconia; poi mille e trecento sospiri si diffondono in me misero, quindi segue un infinito fiume di pianti». Naso è Ovidio (Publio Nasone) e l’opera in cui cura le ferite d’amore sono i Remedia amoris, in particolare cfr. vv. 41-44.