Partire è un po' morire, almeno così dice chi si è affezionato al posto da cui parte. A volte è invece un girare pagina, con tanto entusiasmo e poca voglia di tornare. Tuttavia, è un po' nella natura umana, talora si è costretti a guardarsi indietro. Così, per chi scrive, a volte occorre sfrondare l'esistente, e tenere man mano solo le pagine piuttosto che tutto il giornale, perché non c'è spazio e gli articoli crescono di giorno in giorno. Ho deciso di raccogliere qui quelli scritti per varie riviste online e blog, magari alcuni persino chiusi o abbandonati, aggiungendo qualche pezzo cui ero particolarmente affezionato, benché pubblicato su cartaceo. Anche sugli argomenti mi sono limitato a tre, i preferiti, del resto: eros, arte e natura.

martedì 26 agosto 2014

Lambretta: made in Italy per un perfetto british style



Vespa o Lambretta? In un ideale gioco della torre è uno dei grandi dilemmi del tipo “essere o non essere?”, o meno filosofici, “Beatles o Rolling Stones?”. È un confronto che non permette di tenere il piede in due scarpe, anzi, su due pedali. Se fossero una donna, la Vespa sarebbe Sofia Loren,  morbida e formosa, mediterranea, popolare, nel senso proprio di pop. La Lambretta sarebbe invece Virna Lisi, intellettuale, aristocratica, moderna, internazionale. Tondo contro squadrato, confortevole contro essenziale. La Innocenti, che diede vita allo “scooter del Lambro” nel 1947, concepì infatti la sua creatura come un monociclo leggero di grande praticità e semplice nelle linee. Da allora il successo fu immediato e negli anni Sessanta, lanciati i modelli a carrozzeria chiusa e faro alto dalla storica 125 LI terza serie, si giocò con la Vespa il titolo di regina degli scooters. La Lambretta è uno stile di vita, come lo è anche la concorrente della Piaggio. Alla bimba della Innocenti si attribuisce maggiore stabilità per il fatto di avere il telaio fisso (contro il portante della Vespa), il motore centrale, la doppia forcella e le ruote più grandi. Di contro consuma di più ed è più delicata in quanto meccanicamente più complessa. Al tempo la Lambretta era considerata più elitaria e ai giorni d'oggi più che mai attira collezionisti esigenti e appassionati per la rarità di alcuni esemplari e la difficoltà di reperimento dei pezzi di ricambio. Avere una Lambretta in garage mantenuta in perfetto stato è come avere un gioiello in una teca, al pari di altre moto storiche o delle macchine d'epoca. Tra le più mitiche e ricercate ricordiamo la 175 TV Gold (con la carrozzeria originale di uno stupendo color oro), l'affascinante Cento, la piccola Junior 50, la 125 DL detta “Macchia nera” e disegnata da Bertone o l'ammiraglia 200 DX, ovvero il “Lambrettone”. Modernità, ma anche MODernismo. Nella sottocultura britannica dei MODS infatti, la Lambretta era un simbolo di stile, da tenere perfetta e pulita al pari dei propri preziosi vestiti. Così, sulle orme del film Quadrophenia con la colonna sonora degli Who, le rock star inglesi che aderiscono al movimento come il “modfather” Paul Weller dei Jam e degli Style Concil, i fratelli Gallagher degli Oasis o il ciclista vincitore del Tour de France, Bradley Wiggins, non mancano di farsi fotografare in garage  vestiti eleganti accanto a una delle loro (tante) Lambrette. Lo scooter diventa un accessorio importante per accompagnare il completo, retrò, magari tonic (a tessuto lucido) e tagliato su misura all'inglese (ma spesso di sartoria italiana), con giacca a tre bottoni, doppio spacco laterale e pantaloni a sigaretta stretti e corti alla caviglia che esaltino un paio di raffinati mocassini, stivaletti o brogues (scarpe classiche a coda di rondine, anche bicolori). Un armonioso binomio tra il made in Italy e lo stile britannico, per chi crede nella fede MOD, o più semplicemente ama questo look  riconoscibile eppure sempre sobrio ed elegante.  

da Golf for passion, n° 61, agosto 2014









lunedì 25 agosto 2014

L'utopia della bellezza



Londra, settembre 1848, al numero 83 di Gower Street 7 ragazzi tra i 16 e i 20 anni fondano la Confraternita Preraffaelita (PRB). In reazione alla ormai stanca arte accademica occorreva un moderno ritorno al passato, precedente al tradimento di Raffaello che dalla Trasfigurazione in poi preferì la bellezza alla verità. Occorreva un'arte che recuperasse l'antica etica del lavoro artistico, pur tenendo conto delle scienze nuove; tra queste la fotografia, regina assoluta del verismo. Un precedente analogo c'era stato nei Nazareni, detti anche Fratelli di Isidoro o Dureristi (da Dürer), comune di 4 artisti tedeschi attivi a Roma dal 1810 ma che lasciò tracce per pochi eletti, forse per mancanza di pubblicità. Con una rivista propria invece, the Germ, e soprattutto un amico-estimatore tra i critici, John Ruskin, i Preraffaeliti decollano codificando di fatto un linguaggio estetico molto influente. Un esempio? L'originaria Alice di Lewis Carroll, che da mora con frangetta alla Crepax diverrà ben presto boccolosa alla Disney seguendo il canone della Confraternita. Tra gli esponenti della prima generazione spiccano Dante Gabrile Rossetti, il quale erediterà oltre al nome anche la venerazione per l'Alighieri dal padre, geniale critico dantesco che identifica il Veltro dell'Inferno con l'anagramma di LVTERO. Fu più arcaico e austero nella pittura rispetto ai compagni, talora con reminiscenze  fiamminghe o dell'amato William Blake, come nel caso dello splendido Ecce ancilla domini del 1850. Più morbido Millais, il cui capolavoro Ofelia è tra i manifesti del movimento: eco rinascimentali e romantiche della letteratura inglese (Chaucer, Tennyson, Shakespeare, Keats...) e una cura maniacale del dettaglio. Nella cornice simbolista dei fiori dipinti con sorprendente realismo Ofelia è la modella Elizabeth Lizzy Siddal, bellezza decadente che fu musa e moglie anche di Rossetti, morta per overdose di laudano nel 1862. Un aneddoto riguardo al quadro vuole che il pittore la tenne per ore a posare nella vasca da bagno fino a farla divenire quasi blu, un altro sulla sua morte che le chiome della fanciulla continuassero a crescere anche nella sua tomba. Dettagli dicevamo, come i capelli e le decorazioni de La Dama Shalott di Holman Hunt, costate al pittore 3 anni di lavoro, e che insieme a Burne Jones  anticipano l'Art Nouveau, il Liberty, il compianto Aubrey Beardsley e Bonnie Maclean. Una summa del movimento, sia nello stile che nei soggetti, si nota nel (poco) più tardo Waterhouse, fluido ed etereo nel tratto e cui è affidato il testamento della PRB.

da Golf for Passion, n° 61, agosto 2014
























domenica 20 luglio 2014

Isabella, la musa di Giuseppe Milio Voltolina


Due sono gli eventi più importanti nella vita di Giuseppe Milio Voltolina1: la fondazione dell’Accademia degli Unanimi e Concordi2 e l’innamoramento per Isabella Socia. E tale passione amorosa, non corrisposta, avrebbe portato il poeta alla pazzia3. Le notizie biografiche su Isabella sono assai scarse: nostro campo d’indagine sarà piuttosto la sua figura letteraria. Essa4 compare in tre delle quattro opere latine del Voltolina; il poema De hortorum cultura, sulla coltivazione dei giardini a lei dedicato, si apre con la sua presenza:

                                    Virginei decus una chori, Isabella, venito. 
                               Hortorum hic cultus disces.5
[…]

Ergo age tu mea cura veni, Isabella, tibi ipsos 
dicimus hortorum (ne, quaeso, despice) cultus.6


E si chiude a cerchio:

Haec super hortorum cultu, Isabella, canebam, 
dum tenet imperium nostrae Venerius orae,
ter sacer et sanctus, dignus qui diceret unus 
iura mari terraeque; tulit qui saecula nobis 
aurea: iustitiae magnum, et pacis incrementum: 
ille ego a teneris qui te admiratus adoro,
et doleo aeterno non posse inferre te Olympo.7

In particolare, dal confronto con il finale delle Georgiche di Virgilio, sulle quali è modellato tutto il poema del Voltolina, si nota come la figura della Socia, seppur destinataria dell’opera, sembri, per così dire, aggiunta:

Haec super arvorum cultu pecorumque canebam 
et super arboribus, Caesar dum magnus ad altum
fulminat Euphraten bello victorque volentis
per populos dat iura viamque adfectat Olympo. 
Illo Vergilium me tempore dulcis alebat 
Parthenope studiis florentem ignobilis oti, 
carmina qui lusi pastorum audaxque iuventa, 
Tytire, te patulae cecini sub tegmine fagi.8

Accanto al motivo politico, per cui Caesar (Augusto) corrisponde a Venerius (Veniero, governatore della Magnifica Patria) l’amore per Isabella ribalta la condizione di placido otium descritta da Virgilio e turba gli studi del Milio. Nel De hortorum cultura, la dichiarazione del proprio amore e la relativa indifferenza della ragazza (ne, quaeso, despice) sono appena intuiti. Sono invece centrali nei due carmi erotici, ovvero il Misetus e l’Isis. In entrambi il tema di fondo è la disperazione del poeta che non trova pace in quanto innamorato di Isabella e da lei tristemente ignorato:

solus ego invigilo, cui nulla papavera possent, 
sic multis agitor curis, donare soporem. 
Ah quoties statui, tantum finire dolorem 
aut ferro aut laqueo!9

Nel Misetus, la ferocia della fanciulla che ignora lo spasimante è descritta attraverso esempi tratti, com’è uso, dalla mitologia:

Libycae nam num genuere leaenae 
Isellam, dixi mecum? Num Caspia tigris?10 
[…]
Excipit ignotos iactatos aequore nautas
Laestrigon, et Cyclops, atque omnis barbara tellus:
Laestrigone immiti renuit crudelior Isis 
uno mi misero risu donare salutem?11

Voltolina inoltre descrive il suo gioco di seduzione con una certa ironia traendo alcune situazioni da quello che, a nostro avviso, è tra i modelli letterari del componimento, ovvero l’Idillio XI di Teocrito, il quale presenta un Ciclope sensibile e astuto che gioca a far ingelosire l’amata, e dispettosa, Galatea. Allo stesso modo Milio ricorre a tale, se si vuole puerile, espediente:

Ah quoties misit cum floreque Nisa salutem!
Ah mihi litterulas quoties dedit ipsa Neaera, 
queis stabilem nostram cupiebat flectere mentem!12
[...]
Ergo aliam, Misete, para tibi laetus amicam, 
postquam ingrata tuos Isis fastidit amores.13

Ciò basti riguardo al Misetus; veniamo più diffusamente all’Isis. Evidente la derivazione catulliana del poemetto, e per l’uso degli endecasillabi faleci, e per varie analogie lessicali disseminate tra i suoi versi. Anche qui, alla tranquillità del destinatario, Orazio Pellegrino, immerso in un sereno paesaggio bucolico benacense, si contrappone la condizione infelice del poeta:

Verum, me miserum, cui benigna 
Isellam licuit videre numquam, 
sed semper mihi vel severiorem, 
quam Daphne fuerit lyrisonanti 
Phaebo, vel iuveni Diana, cui iam 
ornavit gemino caput misellum 
cornu, et quem proprii canes vorarunt; 
heu quid me tenues iuvant avenae?14

La figura di Isabella viene assimilata alla ninfa Dafne che fugge da Apollo e a Diana che fa sbranare Atteone reo di averla vista nuda mentre si bagnava a una fonte. E con altra similitudine preziosa, pur se non erudita, il Voltolina descrive il suo stato:


Ergo si facio ut papiliones
qui lucis nimio volant amore
in suum exitium, suumque fatum, 
quid mirum, quoniam mea puella
solem reddere vel tenebricosum
 potest lucidulis suis ocellis?
Quos cum conspicio, ut papiliones 
cum se coniiciunt amatum in ignem, 
conflagro misere nimis misellus.15


Il tono dell’Isis però, a differenza del Misetus, pare segnato da una maggiore rassegnazione, e laddove risulta impossibile stabilire i rapporti cronologici tra i due componimenti, precisiamo di affidarci a una semplice sensazione di posteriorità dell’Isis, tuttavia non comprovata. Il Milio nel finale esprime il desiderio di guarire dalla sua malattia amorosa, ma ne constata pure l’impossibilità con un atteggiamento che richiama l’odi et amo di Catullo e che trova anche solo nel semplice ricordo una, seppur misera, soddisfazione16:

                                At si quod medicus solet docere
Naso, cum iuveni febriculoso 
doctis versiculis suis medetur, 
Isella statuo carere velle;
et sanguis subito riget per artis
et ponunt proprium genae ruborem,
et turgent lachrymis miselli ocelli;
statim solicitudo adest severa,
et timor gelidus, dolorque tristis;
adsunt maestitiae, molestiaeque; 
post suspiria milleque et trecenta

dat latus miserum; sequuntur inde
larga flumina lachrymationum.17



Prolusione a Isabella: la dea Desnuda, 5 novembre 2010 
(poi in Il corriere del Garda, n° 27 - febbraio 2013)




NOTE



Si danno qui alcuni brevi cenni sulle origini e sulla nascita del poeta. Innanzitutto oscilla, secondo uso comune del tempo, la grafia della sua onomastica. Al nome di battesimo, il BRUNATI aggiunge Girolamo, traendolo dal suo registro battesimale; riguardo al cognome, accanto a Milio, troviamo attestato anche Mejo, Meio e Mileo (nel GRATTAROLO) in volgare e Milius, Mellus (per paronomasia con mel-mellis, cioè miele, in Orazio Pellegrino) ed Aemilius (in Pietro Alberti) in latino. Il soprannome Voltolina deriverebbe dalla terra di origine, la Valtellina appunto, come scrive il BRUNATI: «di famiglia originaria della Valtellina, e perciò Voltolina soprannominato. Nacque egli in Salò da Lazzaro Mejo il dì 11 gennaio 1536»; e così sempre il BRUNATI chiosa in due note: «se Tellino lo denomina Pietro Alberti suo coevo, in un epigramma che sta innanzi a’ libri De hortorum cultura (percurens suaves dulcis Telline libellos), dovrà tenersi per certissimo che egli fosse nato di famiglia ne’ tempi addietro dalla Valtellina venuta a stanziarsi a Salò. Il Porcacci nominava Voltolina la Valtellina, e il Cluverio Vallis plerumque, notava, dicitur a vulgo Voltolina: e ognun sa che così chiamasi tuttavia corrottamente quella valle, e Voltolini i suoi abitatori» e «il conte Gian Battista Giovio (Gli uomini della Comasca illustri, p. 149. Modena 1784) diceva il Mejo nativo di Traona, terra della Valtellina spettante alla diocesi di Como. [...] Noi il diremo di famiglia originaria della Valtellina, e forse della terra di Traona». Il FAPPANI però riporta anche un’altra versione: «di Lazzaro, chiamato “il Voltolina” secondo alcuni per l’origine della sua famiglia dalla Valtellina, secondo Guido Lonati dal nome di una contrada omonima di Gardone Riviera usato per indicare altre famiglie di Maderno e di Salò». Per quanto concerne la sua nascita, la data più accreditata sembra essere, come già detto, l’11 gennaio 1536 (BRUNATI e STORIA DI BRESCIA t. II, p. 593); il FAPPANI indica il medesimo giorno, ma dell’anno 1563, il che si tratta quasi sicuramente di refuso di inversione per 1536; il GARGNANI, nella Prefazione alla sua edizione del 1813, indica invece il 23 aprile 1549 e un nome differente del padre, ovvero Cristoforo Francesco.
Su tale argomento, ampiamente trattato, si rimanda oltre alla BIBLIOGRAFIA. Ci si limita in questa sede, per imposta brevità, a riportare quanto scrive la STORIA DI BRESCIA (t. II, p. 511): «già nel 1543 Jacopo Bonfadio [lettera 24 novembre 1543 al Conte Fortunato Martinengo] aveva pensato alla creazione di un’accademia sulle rive del lago amato: ma fu uno dei tanti sogni nella vita dello sfortunato scrittore. Un’accademia nacque forse poco dopo a Salò circa il 1545, con il nome di Accademia dei Concordi, che si dice fosse presto assorbita dalla più fortunata Accademia degli Unanimi (1564), nel 1573 anzi le due Accademie si fusero ufficialmente, fondata con altri giovani letterati e musicisti da Giuseppe Melio Voltolina». Si confronti con il BRUNATI, e con FAPPANI: «tornato a Salò, con altri diciotto giovani il 26 maggio 1564 fondava l’Accademia Unanime o Concorde, di cuifu prima rettore o preside, nel quale ebbe il titolo accademico di “odioso”». Come si vede il Bonfadio è considerato il promotore, almeno ideale di dette Accademie, riguardo alle cui origini si affiancano altri motivi; citiamo in tal proposito A. BONOMI: «l’eventuale influsso esercitato sulla cultura locale dal letterato [Jacopo Bonfadio] che, seppur spesso assente fisicamente dalla zona, doveva essere ben informato dei dibattiti in corso sia per la rilevanza della sua famiglia, sia per i suoi legami con i centri culturali veneti assai influenti anche sul Garda, territorio non secondario della Repubblica Veneta. [...] sarebbe illuminante poter ricostruire il quadro culturale che ha portato alla nascita delle Accademie in quel di Salò. Queste non furono semplicemente la conseguenza di una emulazione di quanto avveniva nelle città della Serenissima Repubblica o di altre parti d’Italia, ma anche lo sbocco naturale del concorrere di ingegni del luogo, favoriti certamente dalla diffusione delle opere a stampa prodotte da quegli abili e versatili stampatori provenienti da diversi centri della Riviera (in ATTI DEL CONVEGNO, Jacopo Bonfadio a cinquecento anni dalla nascita, pp. 32-33)». L’influenza del Bonfadio quindi, l’importanza di Salò, capitale della Magnifica Patria e l’attività degli stampatori sono i fattori determinanti per la nascita delle Accademie, ai quali ci sentiamo di aggiungere, andando un poco più indietro, il magistero (prima del 1506) in Salò del Pilade Boccardi, commentatore, tra gli altri, di Esiodo, autore di una Grammatica latina, scritta forse proprio sul Garda, e di una Genealogia deorum, ovvero un compendio di mitologia in cinque libri di distici latini, certo opera di scarso valore letterario, ma che non può essere ignorata in relazione agli interessi particolarmente eruditi degli umanisti salodiani.
La notizia è riferita dal GRATTAROLO, contemporaneo e amico del Voltolina. Così nella Prefazione il GARGNANI: «una gagliarda passione amorosa invaghillo di Isabella Socia, a cui dedica la sua Coltivazione degli Orti. Questo innamoramento, come lo dice egli stesso, il rese poeta; ma in appresso, qual è che la cagion ne fusse, gli tolse il cervello, secondoché riferisce Bongianni Grattarolo suo amico». Più esaustivo e convincente il giudizio del BRUNATI: «così parrebbe che [...] fino al 1586, in cui stampava il Camilli, il Mejo avesse mentem sanam in corpore sano. Il Gratarola però nella sua Storia della Riviera da lui scritta nel 1587, ci fa credere che il Mejo fosse già uscito di cervello: e il Gargnani credette, che il suo innamoramento per Isabella Socia da lui celebrata fino alla nausea e nei libri della Cultura degli Orti, e nel poemetto Iside, e in altre poesie italiane, qualunque ne fosse la cagione, gli togliesse appunto il cervello. Nè forse fu altrimenti. Sebbene possa parere che una cotal fiamma, pel volgere di forse trent’anni, dovesse non che spegnersi farsi cenere. Che che se ne fosse, null’altro più m’è venuto fatto di sapere de’ fatti e della vita di lui, néil quando pure della sua morte».
Milio la chiama Isabella, Isella e Isis (ovvero Iside); ci sentiamo di affermare che tali varianti siano dovute per lo più ad esigenze metriche.
De hort. Cul. I, 4-5: «Vieni Isabella, decoro unico della schiera di vergini. Qui tu apprenderai come si coltivano i giardini».
De hort. Cul. I, 22-3: «Suvvia, vieni dunque, Isabella, mio amore (non fuggire, ti prego), ti insegnerò la cura dei giardini».
De hort. Cul. III, 445-451: «questo cantavo, Isabella, sulla coltivazione dei giardini, mentre Veniero deteneva il potere sulla nostra Riviera, tre volte sacro e santo, unico degno di dispensare leggi per mare e per terra; lui che ci ha portato secoli d’oro, garante illustre di pace e giustizia; questo cantavo, io che ti adoro ammirando la tua bellezza e mi dispiaccio se non posso innalzarti fino all’Olimpo immortale».
Virgilio, Georg. IV, 559-566.
Mis. 29-32: «solo io rimango sveglio, così agitato da innumerevoli ansie, e a me nessun papavero può portare la quiete. Ah, quante volte pensai di porre fine a tanto dolore con un coltello o con un cappio!». Quanto ai versi 31-32, si confronti Ovidio, Remedia Amoris, 17-19.
10 Mis. 34-35: «mi chiesi se mai fossero state le leonesse di Libia ad aver generato Isabella. O una tigre del Caspio?». La prima immagine è tratta da Catullo, 60, 1-3: «Num te leaena montibus Libystrinis...procreavit»; l’altra deriva da Virgilio, Aen. IV, 366/367: «perfide, sed duris genuit te cautibus horrens / Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres».
11 Mis. 43-46: «Anche i Lestrìgoni, il Ciclope e ogni barbara terra accolsero marinai ignoti tormentati dal mare: Isabella può essere più feroce di un Lestrìgone e negarmi una salvezza che si accontenta di un solo sorriso?» Il paragone coi Lestrigoni (cfr. Ovidio, Met. XIV, 233-240) è piuttosto inusuale in ambito amoroso. Per il Ciclope vedi testo subito sotto.
12 Mis. 55-57: «Ah quante volte Nisa mi mandò il suo saluto con un fiore! Ah quante volte Neera mi diede di persona le sue letterine con cui voleva cambiare il mio unico amore per te!».
13 Mis. 132-133: «dunque, Miseto, felice prenditi un’altra fanciulla, dato che l’ingrata Isabella disprezza il tuo amore».
15 Isis 60-68: «così se faccio come le falene, che volano verso la loro morte e il loro destino per l’eccessivo amore della luce, di che ti meravigli, dal momento che la mia fanciulla con i suoi occhietti lucidi può rendere scuro persino il sole? E quando li guardo, come le falene quando si congiungono col desiderato fuoco, disperato brucio assai miseramente». La similitudine è piuttosto rara nei poeti latini; un modello potrebbe essere il bellissimo esametro palindromo di un anonimo medievale sulle falene: «in girum imus nocte et consumimur igni»; ma tale fonte ci sembra più suggestiva che certa.
14 Isis 35-42: «Quale sollievo c’è per me nei dolci flauti? Quale, per me misero, cui non è mai stato possibile vedere Isabella ben disposta, ma anzi sempre più crudele nei miei confronti; crudele come fu Dafne con Apollo che suonava la lira, o Diana con il giovane al quale cinse il capo infelice col doppio corno e che fece divorare dai propri cani»
16 Viene alla mente «E pur mi giova/ la ricordanza, e il noverar l’etate/ del mio dolore» di Leopardi (Alla luna, 10-12), che probabilmente non leggeva il Voltolina. L’idea del beneficio del ricordo ribalta un tema diffuso tra antichi e medievali, espresso, tra i molti, in Dante, Inferno, V, 121-123 «Nessun maggior dolore/ che ricordarsi del tempo felice/ ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore», riprendendo una massima di Virgilio (Aen. II, 3-4; IV, 647-705) o di Boezio (De cons. phil. II, 4, 2).
17 Isis 130-142: «ma se come insegna il medico Nasone, quando risana coi dotti versi il giovane ammalato, decido di voler fare a meno di Isabella, ecco subito il sangue mi si gela nelle vene, e le gote perdono il loro colorito, e gli occhi si gonfiano di lacrime; subito mi prende una rigida ansia, una fredda paura, un triste dolore; vengono afflizione e malinconia; poi mille e trecento sospiri si diffondono in me misero, quindi segue un infinito fiume di pianti». Naso è Ovidio (Publio Nasone) e l’opera in cui cura le ferite d’amore sono i Remedia amoris, in particolare cfr. vv. 41-44.

L'elogio del Benaco da Posculo al Gratiolo e le leggende del carpione



Così il Graziolo scrive l’elogio del Benaco nel suo Discorso di peste (1576):

«Ma che l’aere di questa patria, oltre i continui venti che lo purgano, anco per altri rispetti non si possa putrefare ognuno, c’habbia una minima notitia della Riviera del nostro Benaco, senza alcun contrasto lo confesserà, essendo che in tutti i luoghi la terra è assai secca e petrosa, che se ben piovesse più giorni, cessata la pioggia, si può caminare senza trovar fango: onde ancor noi siamo manco soggetti alle infermità che nascono da putredine che quelli che vivono in luoghi humidi, per essere i nostri corpi più secchi e manco abondanti di escrementi. Percioché i luoghi secchi e l’aere secco fanno anco l’habito del corpo più secco e più puro; anzi quanto più l’estate appresso noi va humida, tanto manco infermità abondano, apportandone più tosto un temperamento alla nostra siccità che danno alcuno. Et quello che è di maggior momento, oltre le herbe che di continuo spirano soavissimo odore, è che questa nostra Riviera abonda di tanti allegri e nobili arbori, che a paragone de’ nostri giardini quelli delle Hesperide parrebbono selvaggi; conciosia che per la difesa che ci fanno i monti dalla Tramontana non vi si sente mai freddo eccessivo, né anco per altra cagione eccessivo caldo. La onde per tal temperie perpetuamente vi verdeggiano Lauri, Mirti, Cipressi, Olivi, Limoni, Aranci e Cedri che sarebbono atti co’ loro fiori e frutti così odoriferi scacciar ogni putredine dall’aere di tutta la Riviera. [] Né in questa nostra Riviera si trovano paludi o stagni da i quali possano uscire alcune essalationi putride, ché qui sono se non Fontane d’acqua viva, non morta; e l’acqua del nostro Benaco è la più pura, la più sincera e la più limpida di qual si voglia altra, et ha in sé tutte quelle conditioni che danno Hippocrate, Galeno, Avicenna, Dioscoride, Paolo, Aetio, et altri Autori di medicina alla buona e perfetta acqua; percioché ella è dolce al gusto, dilettevole da bere, priva d’ogni qualità estranea, leggierissima, sottilissima et purissima, e bevuta, in un tratto passa per le viscere senza far molestia o ventosità alcuna, e facilmente si scalda e si rinfresca. Non è cruda né aspera come quella de’ monti, anzi et herbaggi e legumi e carne e frutti e radici facilissimamente in quella si cuoceno. E’ fredda d’estate, è calda d’inverno, non al contrario, come è la palustre; non pigra né lenta o morta, ma sempre in continuo flusso e reflusso; et ha il suo letto tutto petroso et arenoso di una arena mondissima, non come la più parte dell’altre acque, fangoso e sporco: talché si potria dare anco di questa alli infermi senza darle altra cottura, come anco gli antichi quella di fontana. E’ ben vero che chi nell’estate la vuol perfetta non bisogna ser- virsi di quella appresso la ripa, ma dell’altra, che si cava più in alto. Et perciò non è meraviglia s’ella produce così eccellenti pesci, come è la Trutta e l’unico Carpione, che si nodriscono, come dicono alcuni, se non d’arena d’oro, ché come scrive Aetio il commune segno che la carne de’ pesci sia buona è che vivino in acqua pura, agitata da venti e che habbia le ripe arenose, aspere e sassose». (Discorso di peste, cap. XI, passim)

Tutto il passo è modellato sull’Oratio de laudibus Brixiae18, scritta dall’umanista Ubertino Posculo (Bagnolo Mella 1430 – 1504) ed edita nel 1458. Ho sottolineato i luoghi in cui il testo del Graziolo rieccheggia quello quattrocentesco ed i loci communes tra le fonti. Si comincia con la salubrità dell’aria:

«Aether enim (...) et aer qui inferior est ita totum annum temperati concordesque procedunt ut etiam sanissimos huius agri nostri animantes cunctos servent et terram feracissimam ad rerum omnium copiam red- dant». (Oratio de laudibus Brixiae, in P. GUERRINI, op. cit., p. 6).
«L’etere infatti e l’aria che si trova sotto sono per tutto l’anno così temperate e concordi tra loro che conservano sanissime tutte le creature della nostra zona e rendono la terra assai feconda per l’abbondanza di ogni genere di frutto» (trad. S. Lingeri).

Si passa poi alla descrizione della flora, varia e rigogliosa, la cui presenza dona al Benaco le caratteristiche tipiche del locus amoenus, dell’hortus conclusus:

«Colles benignos et vineis et olivetis plenos habet, qui longe spectantibus delectationem haud mediocrem largiuntur». (Oratio de laudibus Brixiae, in P. GUERRINI, op. cit., p. 8).
Le soavi colline sono piene di vigne e di oliveti che offrono a chi li guarda da lontano uno spettacolo non indifferente. (trad. S. Lingeri)

Per motivi letterarii il “giardino gardesano” viene assimilato a quello di Corfù19, e a quello mitico delle Esperidi, soprattutto per la presenza dei limoni20:

«Pometa vero ac paradisos ingressus quis si viderit odoris [correggo la lezione edoris] arboribus et fructiferis consitos fructibusque suavissimis plenos profecto ab Hesperidibus illis, quas ab Hercule aureis pomis spoliatas poetae tradunt, plantaria huc traslata extimare poterit, quae hic nullo custodita dracone securus quisquis laetus carpit. Hic citra Indica poma gustu sapidissima odore suavissima nascuntur, quae arbores ut semper virentes contra frigora durant, ita et poma sua recentissima custodiunt. Corcyram insulam perpetuo vere celeberrimam Homerus canit». (Oratio de laudibus Brixiae, in op. cit.,p. 9).
«Senza dubbio se qualcuno, entratovi, vedesse i frutteti e i giardini intrecciati di alberi profumati e pieni di fragrantissimi frutti, di certo penserebbe che in quel luogo le piante siano state portate da quegli orti delle Esperidi che, come scrivono i poeti, sono stati derubati da Ercole dei pomi aurei. E qui chiunque in sicurezza coglie felice i frutti custoditi da nessun serpente. Qui crescono limoni molto saporiti nel gusto e molto dolci nel profumo, limoni che gli alberi, rimanendo sempre verdi contro il freddo, mantengono assai freschi. Omero celebra l’isola di Corcira, famosissima per l’eterna primavera». (trad. S. Lingeri)

Questo passo del Posculo, con l’esplicito paragone mitografico, ritornerà nei poemi cinquecenteschi sul Benaco. Eccolo, per esempio, puntualissimo intertestualmente, nel Sirmio di Stefano Dolcino (1462 – 1508), edito nel 1502: 

«Corcyraea putes olere poma, hortosque Hesperidum patere totos». (Sirmio, vv. 485 – 486) 
«Penseresti profumino i limoni di Corcira, si dischiudano tutti i giardini delle Esperidi insieme». (trad. S. Lingeri)

E di “albero dei Medi”, alludendo al limone, o al cedro, scrive Pietro Bembo (1470 – 1547) nel suo Benacus21, epillio di 200 esametri dedicato a Gian Matteo Giberti, vescovo di Verona, risalente presumibilmente al 152422«Continuo Nymphae mensas ante ora Deorum speluncae in medio niveis mantilibus alte consternunt, dapibusque onerant, Dictaeaque plena vina ferunt, referuntque manu, calicesque madentes praecingunt myrto, atque implexis flore coronis purpureoque rosae Medorumque arboris albo, Medorum quondam; sed quae nunc plurima laetas Benaci vestit ripas, non illa caduca fronde virens, suavique auras permulcet odore». (Petri Bembi Benacus, vv. 55 – 63)
«...subito, nel mezzo della caverna, dinnanzi ai volti degli Dei le Ninfe coprono le mense con nivee tovaglie, le colmano di vivande, portano avanti e indietro a piene mani vini dittei e cingono i grondanti calici di mirto e corone intrecciate del fiore purpureo dell rosa e di quello bianco dell’albero dei Medi: anticamente dei Medi, ma che ora veste numerosissimo le rive rigogliose del Benaco – senza verdeggiare, lui, di fogliame caduco – e addolcisce l’aure di soave profumo». (trad. L. Redana). 

Sempre di pomi delle Esperidi parla Girolamo Fracastoro (1478? – 1553) nella Syphilis, sive de morbo gallico (edita nel 1530), un poemetto in tre libri di esametri latini in cui vengono trattate, anche con molte allusioni mitologiche, le origini e la cura della sifilide; opera celebre, quella del Fracastoro, in cui si sofferma anche sul Benaco e dedicata proprio al Bembo, ben conosciuta dagli autori successivi, poeti e medici:

«Nè taceran di te miei carmi, o cedro, gloria d'Esperie e selve Mede, e quivi, benchè lodato pria dai sacri vati, non sdegnerai la mia medica Musa. Così verdeggi ognor tua chioma, e folta sempre, e per nuovo fior fragrante, e carca d'auree pendenti poma, orni la selva». (Syphilis, sive de morbo gallico, II, vv. 212 – 218, trad. italiana del 1842).

Del resto, riferimenti al Garda sono presenti un po’ ovunque nei Carmina del Fracastoro, eccone per esempio uno in un carme dedicato a Marco Antonio Flaminio, in cui si parla anche di Gian Matteo Giberti23:

«Rura, oro, Giberte, tuo Benacea vati da, viridesque oleas, et multa protege lauro». (Carmina, VII, vv. 65 – 66)
«Giberti, i campi del Benaco al tuo vate deh, dona e i verdeggianti ulivi; tu lo ricopri d’abbondante alloro!». (trad. F. Pellegrini)

All’interno dello stretto rapporto tra i versi del Bembo e quelli del Fracastoro si inserisce l’anonimo autore del Sarca24, un poemetto di 619 esametri in cui si narrano l’amore e le nozze tra il fiume Sarca e la ninfa Garda, figlia di Benaco. L’opera, datata intorno al 1517, e di grande valore artistico, costituisce la fonte per i due autori ai quali fu da alcuni attribuita. E in effetti i punti in comune, per lessico e contenuto, sono numerosi. Tra questi, immancabile, il riferimento agli orti delle Esperidi e di Corcira:

«Semper odoratis pendet vindemia citris aurea, surgenti semper subit altera fetu; quaeque super gravibus pomis nova poma recumbunt, prospectu vario tabulata per alta renident. His, quae Massylo quondam servata draconi Herculeae carpsere manus, his naufragus heros Dulichius quae Corcyrae miratus in hortis, invidisse queant. Haec magni regia Sarcae tunc fuit». (Sarca, vv. 187 – 195)
«Sempre la vendemmia pende, a festoni, tra gli odorosi cedri, dorata, sempre con esuberante fecondità ne succede una seconda; e i frutti, che sul peso degli altri frutti ricadono nuovi, in varia vista ridono come su alte spalliere. Li potrebbero invidiare quelli che una volta, custoditi dal drago atlantico, furono colti dalle mani d’Ercole, quelli che il naufrago eroe dulichio ammirò nei giardini di Corfù». (trad. G. B. Pighi)

Nell’agosto del 1541, Jacopo Bonfadio (Gazzane di Salò 1500 – Genova 1550) descriveva in un’epistola25 a Messer Plinio Tomacello, la bellezza della Riviera, con passi pressochè tradotti dal Posculo, dal Bembo e dal Fracastoro, non senza risonanze botticelliane e poliziesche:

«(...) Qui vedrete un cielo aperto, lucente, e chiaro, con largo moto, e con vivo splendore quasi con un suo riso invitarci all’allegria. (...) L’aere similmente vi è lucido, sottile, puro, salubre, vitale, e pieno di soave odore, e massimamente alla Riviera nostra; (...) Il lago è amenissimo, la forma d’esso bella, il sito vago; la terra, che lo abbraccia, vestita di mille ornamenti e festeggiante, mostra d’essere contenta appieno per possedere un così caro dono.(...) Lungo le rive, che sono distinte con belle abitazioni e castelli, e d’ogn’intorno ridono, si vede in ogni stagione andar primavera; seco è Venere in abito più scelto; Zefiro le accompagna, e la madre Flora va innanzi spargendo fiori e odori che danno la vita, della quale sopra vi diceva; e dalle rive rivolgendo la vista verso le piagge ed i colli, che in alto si mostran tutti fruttiferi, e lieti, e beati, pare, che non si possa dire, se non ch’ivi tenga sua stanza la sorella del silenzio e la felicità. I frutti sono tutti qui più saporiti che altrove, e tutte le cose, che nascono dalla terra, migliori. Per li giardini che qui sono, e quei dell’Esperide, e quelli d’Alcinoo, e d’Adoni, la industria de’ paesani ha fatto tanto, che la natura incorporata con l’arte è fatta artefice e connaturale dell’arte, e d’amendue è fatta una terza natura, a cui non saprei dar nome. Ma de’ giardini, degli aranci, limoni, e cedri, de’ boschi, d’ulivi, e lauri, e mirti26, de’ verdi paschi, delle vallette amene, e de’ vestiti colli, de’ rivi, de’ fonti, non aspettate ch’io vi dica altro, perché quest’è opera infinita». (Lettere volgari, I, 6, presso Aldo Manuzio, Venezia, 1544)

Ancora, nel Benacus di Giorgio Iodoco da Bergen (edito a Verona nel 1546), che pure imita in molti passi la Syphilis e i Carmina del Fracastoro, il Bembo e il Sarca, il limone è uno dei doni che Venere porta, traendolo appunto dal giardino delle Esperidi, al dio Benaco per le sue nozze con la ninfa Caride:

« "Ecquis erit pueri potis indagare profundas Medorum sylvas; aut trans Maurusia regna auricomum nemus Hesperidum, quo poma draconum excubiis vigilata ferat? Nec obesse colubri tentabunt, iussisque meis inserviet Aegle; Hesperidum qua nulla magis formonsa, nec ullus Medorum obstabit". […] Ipsa suos alacris Benaco expandit honores et myrtos Paphias […] in gyrum circum spumantia figit littora. Et auratis vernantia rura volemis, rura altis subiecta iugis, ignara pruinae, nescia Sithonii Boreae delegit, et illis sub cura pulchrae Saloes Dryadumque sororum limones citriosque graves, Maurusia mandat germina, et aprico disponit singula tractu». (Benacus, I, vv. 335 – 341; 352 – 361 passim)
«"E quale fanciullo mai potrà esplorare le inaccessibili selve dei Medi? Oppure, oltre i regni mauritani, il bosco dalla chioma dorata delle Esperidi, da dove porterà i pomi vigilati dalle veglie dei serpenti? Questi non cercheranno di opporsi, ed Egle acconsentirà ai miei ordini, Egle, rispetto alla quale nessuna Esperide è più bella, e nessuno dei Medi sarà di impedimento". […] Venere stessa tributa a Benaco i suoi solleciti onori e pianta i mirti dell’isola di Pafo intorno alle rive spumanti. E sceglie terreni primaverili per i frutti ovali dorati, terreni che sottostanno ad alti gioghi montani, difesi dal gelo, che non conoscono il vento di Borea che proviene dalla Tracia. Affida alla cura della bella Saloe e delle sorelle Driadi i limoni, i grandi cedri, i germogli mauritani, e li dispone ad uno ad uno sul tratto soleggiato». (trad. S. Lingeri)

E così Giuseppe Milio Voltolina (Gazzane di Salò, 1536 – 1580) all’inizio del suo poema De hortorum cultura27, in un clima tutto benacense, in cui la presenza di Adone28 denuncia l’influenza del passo del Bonfadio (questi è elogiato dal Voltolina al verso 21 dello stesso libro):

«Non labor, Hesperides felices quo minus hortos excolerent, ullus fecit; labor ullus amatos negligere hortorum cultus, induxit Adonin; Alcinoum nunquid, cui iam Phoeacia tellus paruit, et populo dixit qui jura superbo, sub pingui puduit lactucam condere terra?». (De hortorum cultura, I, vv. 9 – 14)
«La fatica non fece sì che le Esperidi coltivassero di meno i felici giardini, né indusse Adone ad abbandonarne l’amata cura; forse che Alcinoo, a cui obbedì la terra dei Feaci e che impose leggi a un popolo superbo, si vergognò di piantare la lattuga sotto la terra rigogliosa?». (trad. S. Lingeri)

Sempre il Voltolina, nell’Hercules Benacensis (1575), un poemetto di 702 esametri latini in cui Ercole, di ritorno dai giardini delle Esperidi, si ferma sulle rive del Benaco, scrive che l’eroe, innamorato della ninfa Madorine, le dona un ramo dell’albero delle Esperidi, con i pomi ancora attaccati, per abbellire i suoi giardini (Hercules Benacensis, vv. 502 – 570). Il doppio motivo letterario dei giardini delle Esperidi e di Corcira tornerà anche nel De laudibus Castri Romani et Benaci29 di Tommaso Becelli (1520 – 1579), poemetto di 368 distici elegiaci latini di poco posteriore al Discorso di peste del Graziolo (fu edito nel 1579):

«Hesperides credas hic tu cessisse Canossis auricomas sylvas, conspicuumque nemus (hic charitum Peregrinus amor pomaria nutrit, quaeis sylvae cedant divitis Alcinoi». (De laudibus Castri Romani et Benaci, vv. 135 – 142 passim)
«Qui crederesti che ai Canossa donassero le Esperidi / orochiomate selve e boschi incantevoli / qui Pellegrini, delle Grazie diletto,coltiva frutteti, / cui ben cedono le selve del ricco Alcinoo». (trad. Sala / Salandini)

Sul versante volgare troviamo molte affinità con le opere citate nelle Rime del filosofo e poeta petrarchista veronese Girolamo Verità30, morto nel 1552. Come si può vedere, anche il Graziolo, pur mosso da interessi differenti, non rinuncia all’allusione dotta. E pure è presente l’eziologia quando, passando dalla flora alla fauna, ovvero ai pesci che popolano il lago, cita il mito del carpione che si nutre di sabbia d’oro. Il fatto, già noto nel Quattrocento31, è citato nel testo del Posculo, il quale scrive:

«Et quod subtiles naturalis historiae indagatores tradiderunt, id verum esse haud parvum argumentum est, auro scilicet pisces hos quos Carpiones vocamus enutriri, quod non longius hi pisces sic alii per aquas divagantur, sed intra quasi circumscriptos fines ubi aurum de nostris metallis suppeditatur se continent. Et arenis aureis ut pascuntur ita eas sua tanquam incunabula egredi minime audent. Tagum [correggo la lezione Iagum] in Hispania; Pactolum in Lydia, et Hermum etiam in Asia flumina poëtae aureas arenas trahere memorant, sed nil ultra de ipsis praedicatur, non eis incolae ulterius in suos usus praeter aquas perfruuntur. At nos si aurum de metallis his propter nimiam aquae profunditatem effodere prohibemur, non auri tamen immunes omnino sumus. Pisces enim ex auro, ut ita loquar, nati auroque pasti nobis pro auro praestantur; hisque non solum urbis nostra copiosa redditur, sed etiam propter incredibilem eorum bonitatem atque saporem, cum his et Reges et Principes et opulenti viri vesci percupiant, per omnes Italiae partes deferuntur. Et quod mirum est quasi ex incorrupto certe auro se esse testantur, mensem unum recentissimi conservantur». (Oratio de laudibus Brixiae, in PAOLO GUERRINI, op. cit. pp. 10 – 11)
«E non è argomento da poco stabilire se ciò che i dotti studiosi di storia naturale hanno tramandato, cioè il fatto che i pesci che chiamiamo carpioni si nutrano di oro, sia vero. Ciò perché questi pesci, e altri, non si aggirano troppo vagamente per le acque, ma si circoscrivono, per così dire, nelle zone in cui si trova, tra i nostri metalli, oro in abbondanza. E si cibano a tal punto di sabbie dorate che non osano per nulla lasciarle come se fossero la loro culla. I poeti scrivono che il Tago in Spagna32, il Pattolo in Lidia33 e l’Ermo34, sempre in Asia, portano sabbie dorate35, ma non si dice di più riguardo a questi e gli abitanti non godono di altro se non dell’acqua di questi fiumi. Noi invece se non possiamo accedere all’oro a causa dell’eccessiva profondità (in cui si trova), non siamo tuttavia esclusi dal tutto dal suo beneficio. Infatti i pesci, nati, per così dire, dall’oro e nutriti con oro, giovano al suo posto a noi (che li mangiamo); e non solo sono offerti abbondantemente alla nostra città, ma anche, per la loro incredibile bontà e il loro sapore, poiché re e principi e uomini ricchi desiderano cibarsi di questi, sono portati in ogni parte d’Italia. E la cosa incredibile, che dimostra che in essi vi sia un oro pressoché puro, è il fatto che si conservano freschissimi per un mese intero». (trad. S. Lingeri)

Anche nel Sirmio del Dolcino (vv. 401– 440) compaiono le sabbie dorate:

 «Benacum auriferis nitentem arenis». (Sirmio, v. 375)
«Lui che risplende di sabbie dorate». (trad. S. Lingeri)

Quindi si passano in rassegna i pesci che vivono nel Garda:

«Sardae, Carpio, Tructa, Persa, opimae anguillae orbibus in voluminosis.

Et te suave thymum Thymalle olentem». (Sirmio, vv. 407 – 409)

«Sardine, carpioni, persici e trote, pingui anguille ritorte in ampie spire, te, temolo, che soave di timo profumi». (trad. S. Lingeri)

A questi, delicati, umili, vengono contrapposti , con un tono moralistico che denuncia la fonte (Orazio, Satire II, 2, 30 – 49; ma anche Marziale e Giovenale), pesci (rombo, triglia, storione, branzino...) costosi e pregiati ma meno buoni e “honesti”. Non c’è alcun accenno però riguardo al mito del carpione. Accenno che invece è presente nel Sarca, anche se esso è limitato alla leggenda che questo pesce si nutra di oro:

«Adde Garignani cymbis quicumque frequentant litora piscosi; ponuntur retia, cessant cuspide depositi nodosae ab harundinis hami; qua libuit tuto lascivit piscis in unda, nec timet insidias, impuneque seligit aurum carpius, in sicca naxae feriantur harena». (Sarca, vv. 271 – 276)
«Aggiungi i barcaioli che frequentano le acque pescose davanti a Gargnano; si ripongono le reti, riposano gli ami staccati dall’estremità della nodosa canna; guizza dove vuole, al sicuro, il pesce, né teme insidie, senza rischio estrae il suo oro il carpione, sull’asciutta sabbia restano sfaccendate le reti». (trad. G.B.Pighi)

Ma il passo sopra citato del Dolcino confluisce, anche attraverso la mediazione oraziana, nel poema dello Iodoco (Benacus, IV, 35 – 78), il quale successivamente narra la favola metamorfica del salmonide, dedicandola a Girolamo Fracastoro, anch’egli autore di un precedente poemetto (composto intorno al 1535), in esametri latini, sul medesimo argomento36:

«Nunc cape qua serie, quale sit origine cretus. Abdita namque tibi tanti miracula facti et referam divum vindex quid fecerit ira. Hic mihi fas te sit sectari culte Fragastor. Quaeque laconismo super doctaque Thalia scripsisti, longo liceat depromere cantu». (Benacus, IV, vv. 79 – 84)

«Ora apprendi da quale progenie, da quale origine sia nato. Ti è oscura infatti la meraviglia di un fatto così grande, e ti riferirò cosa fece l’ira vendicatrice degli dei. Qui mi sia lecito seguirti, dotto Fracastoro. Che io possa narrare con un lungo canto quel che tu scrivesti in modo conciso sotto la guida della dotta Talia». (trad. S. Lingeri)

A questo punto parrebbe evidente pensare che il Fracastoro sia stato il primo a inventare o a riportare, attingendo a una leggenda popolare, la favola, in quanto precedentemente nessuno la cita. Sembra inoltre opportuno segnalare che per quanto riguarda il Dolcino, di origine bussetana, il soggiorno benacense fu una sorta di breve vacanza, in cui presumibilmente non ebbe il tempo necessario per informarsi su eventuali tradizioni gardesane. Questo sembra suggerito da una geografia poetica nel Sirmio che privilegia la parte meridionale del lago, l’unica che verosimilmente visitò, con sparuti accenni a quella settentrionale. Riguardo al Sarca invece, l’assenza di riferimenti a una favola sul carpione confermerebbe l’anteriorità del poemetto rispetto a quelli del Bembo e del Fracastoro. Seguendo quindi la fonte, lo Iodoco racconta come il dio Saturno mutò Carpo e compagni in carpioni perché cercarono di derubarlo dell’oro e la conseguente avidità del metallo prezioso da parte di questo pesce: 

«Iam Iovis Aetherei iussu, sua dona parenti attulerant Dij, nate, tuo (quibus ipse referta littora iam cernis) properabat quilibet arces ad proprias. Tunc et sedes Saturnus avitas () repetens, (tum convenit illum Ignipotens (fuerat vectus Vulcanus eodem curru) (“Eia age nunc (Saturnus ait) mi Mulciber; ambo (dum vires reparare novas sors improba cogit) aggrediamur iter pedites. Tu tardipes; at me vires deficiunt (gelida attenuante senecta haec membra)”. (sic tardi incedunt iuga per daclivia montis. Dum residem subeunt umbram flaventis olivae, lapsaque membra quies instaurat, littora pone nautas conpiciunt (iam tum fabricare carinas et sulcare fretum monstrarat docta Minerva). “Ecquis erit vestrum (Saturnus clamat) amici, ulteriora lacus qui nos ad littora ducet?”. Ocyus accurrunt, pacta mercede, carina excipiunt, pergunt, pressis sub pectora remis. Iam medium tenuere lacus, imbellia membra ut videre virum nautae (concusserat atra corda fames auri) “quo fures tenditis, auro vallati?” navarchus ait. (Carpio dictus erat (cunctos quia carpere lintre sueverat acceptos) qui verba scelesta tonabat.(...) Aurum dum toties truculento gutture clamant dumque nimis terrent, dum vim dextrasque rapaces Dijs inferre parant, raptoque potirier auro, percitus ira “aurum – dixit Saturnus – habeto, gurgite sed summo gens perfida, gurgite quaere et depasce aurum, nec sit tibi vilior auro esca, sed eniteant etiam tua tergora guttis auratis, foris atque intus satiata libido sit tua, quaesito nec destituaris ab auro”. Dixit et exili depressit corpora forma. Et tenui vestit corio. Quum rursus hiante ore parant aurum nautae extorquere, repente vox fugit et mutos coguntur pandere rictus. Mutato capiti nectuntur perfida terga, exempto collo in bifidam vestigia caudam vertuntur duraeque manus, hirtique lacerti in pinnas; venter longam formatur in alvum. Villosi in tenues squammas mutatur amictus. Erubuit, nec ferre suum gens impia crimen Sustinet, aut Divum faciem, se Carpio primus praecipitat sequiturque suum caput impia turba. (...) Sic hi se liquidi sub gurgitis ima praecipitant, quaeruntque aurum. Nec copia defit. Namque auri aeterna foetae scaturigine venae cautibus emanant imis et plena ministrat pabula. Non alga vili, non nescitur esca Carpio mortali. Tantum radiante matallo auri se fovet. Et culpae sibi conscius, imis gurgitibus degit, lucemque hominesque perosus». (Benacus, IV, vv. 80 – 167 passim)
«Già i celesti, per ordine di Giove, avevano portato i loro doni, figlio, al padre (e tu stesso vedi le coste abbellite da questi), e ciascuno quindi si affrettava a tornare alle proprie dimore. Allora pure Saturno si dirige alle sedi avite e viene con lui anche l’Ignipotente, Vulcano. “Suvvia, mio caro Mulcibero, – dice Saturno – mentre un sorte sfortunata ci costringe a recuperare nuove energie, andiamo tutti e due a piedi, tu zoppo, mentre a me mancano le forze, con queste membra fiaccate dalla gelida vecchiaia”. Così lenti scendono per i gioghi scoscesi del monte Baldo. Mentre stanno sotto la pigra ombra di un fulvo olivo e la quiete si diffonde per le stan- che membra, dietro la spiaggia vedono dei marinai (già allora la dotta Minerva aveva insegnato loro a costruire scafi e a navigare). “Chi di voi, amici (chiama Saturno), ci può portare alla sponda opposta del lago?”. Quelli accorrono velocemente, stabilito il prezzo, prendono la barca, la spingono in acqua e iniziano a vogare con i remi. Già erano in mezzo al lago quando i marinai videro i due uomini indifesi (una insaziabile fame di oro aveva preso i loro cuori). “Dove andate, ladri, così pieni di oro?” disse il capitano. Era chiamato Carpo, perché era solito carpire e rubare a tutti coloro che accoglieva nel suo battello.Tuonava parole blasfeme. Mentre più volte pretendono l’oro con grida feroci e non temono nulla, mentre si preparano a portare ai due dei la loro violenza, le mani rapaci, e a impadronirsi dell’oro rubato, spinto dall’ira, dice Saturno: “prendetevi l’oro, ma in fondo al lago, gente odiosa, sul fondo cercatelo e nutritevi di esso, per voi non ci sia altro cibo. E anche le vostre schiene risplendano di punti dorati. Fuori e dentro sia saziata la tua sete, cercherai l’oro e non ti staccherai mai da esso”. Così disse, e i corpi iniziarono a prendere una forma esile. Si vestono di una pelle sottile. Quando i marinai ancora si preparano con la bocca aperta a estorcere l’oro, la voce subito fugge e sono costretti a spalancare mute fauci. Alla testa trasformata s’attaccano perfidi dorsi, dal collo scomparso i piedi si mutano in una coda biforcuta, le dure mani e le braccia ispide si trasformano in pinne. Il ventre si allunga in un alveo. I peli divengono squame delicate. Empi arrossiscono e non riescono a tollerare il loro crimine, né lo sguardo degli dei. Per primo Carpo si tuffa in acqua, quindi i compagni blasfemi seguono il loro capo. Così questi si gettano nel fondo del liquido gorgo e cercano l’oro. E non manca mai. Vene di oro ne fanno scaturire dalle rocce profonde in eterno e offrono sempre cibo. Il carpione non conosce vili alghe né esche mortali. Si nutre solo dello splendente metallo e consapevole della sua colpa resta negli abissi remoti, odiando la luce e gli uomini».(trad. S. Lingeri)

Questa dunque è la versione più nota del mito. Si può notare una vistosa somiglianza con l’episodio narrato da Ovidio in cui Dioniso trasforma in delfini i pirati tirreni (Metamorfosi, III, 597 – 691). Un riferimento al poemetto del Fracastoro lo ritroviamo nell’epistola già citata del Bonfadio:

«Non vorrei però, che per avventura credeste che avessi tolto io a lodarlo; prima, perché sarei presuntuoso; che lo scrivere del Carpione solo affaticò la mano e l’ingegno del Fracastoro». (Lettere volgari, I, 6, presso Aldo Manuzio, Venezia, 1544)

Altra interessante citazione si trova nel Dialogo dei colori, di Lodovico Dolce (1508 – 1568), edito a Venezia nel 1565:

«COR(nelio): Poi i Carpioni nascono nel Lago di Garda, che si può dire nella sua lunghezza, e larghezza un mare, e fa alle volte maggior fortuna, che non fa esso mare. E questo pesce si dice nudrirsi di oro, oltre che è raro, e di sapore perfettissimo; e di tanta stima che fu celebrato dal Fracastoro. E ’l Pierio ne’ suoi versi latini finse questa favola: la quale è, che Catullo partendosi da Sermione, e navigando per il Lago, hebbe un fortunale: per il quale affondandosi la sua barchetta, salvandosi egli per esser vicino al lito, fece perdita di alcuni suoi libri, i quali erano scritti in carta pergamina; e questi libri si trasformarono in carpioni.
MAR(io): Non so, se la favola stia propriamente a questo modo: ma so bene, che egli fa questa trasformazione: la quale è ridicola, percioche al tempo di Catullo gli Dei non facevano piu queste mutationi. E lasciando il motteggiare, danna molto il Bembo l’audacia di alcuni moderni, che si hanno presa l’autorità di far trasformationi, parlando puntualmente del Pontano, che molte ne fa nella sua Urania; e tassando ancora copertamente il Sannazaro; che fa la trasformatione delle Ninfe in salice37. Ma che dinoterebbe il Carpione?
COR. : Che colui, a cui si mandasse, fosse di bello e grande animo, per rispetto dell’oro; di cui dicono questo pesce nudrirsi, e raro e segnalato in virtù, per essere il medesimo pesce di così grato cibo e sapore». (Dialogo dei colori, appresso Gio. Battista Marchio, Venezia, 1565, p. 56 )

Accanto alla favola narrata dal Fracastoro, il Dolce ricorda quella del Pierio, ovvero Pierio Valeriano, umanista bellunese (1477 – 1560) che nel 1549 compose il Carpio, un poemetto latino appunto sul carpione. Non si sa tuttavia se la variante del mito legata a Catullo fosse attinta dal Valeriano a una leggenda popolare oppure invenzione dell’autore38. Invenzione certa dell’autore è invece la versione39 presente nell’Hercules Benacensis del Voltolina, il quale, pur avendo ben presente il Benacus dello Iodoco, con cui mantiene una certa affinità di situazione, cambia la leggenda del carpione fondendo il rapporto letterario tra il Benaco e gli orti delle Esperidi con l’oro di cui si nutre il pesce e i pomi sottratti da Ercole. Ne consegue che l’eroe divino, e non più Saturno, divenga il protagonista della trasformazione:

«Alcides, postquam jussis agitatus iniquis duri Euristei, nec non odiisque novercae (forte iter hac fecit, patrias rediturus ad arces Thebarum; heac ubi vero lacus laetissima nostri aequora prospexit. (...)Italiae hanc re vera oram ridentis ocellum, naturae et laetantis opus Tyrinthius heros defessus statuit penitus cognoscere, et aegras instaurare mora hic vires animisque vacare. (Tunc forte Alcides Benaci ad litora venit, aurea ab Hesperiis secum quae carpserat hortis poma gerens, viridi convulsa ex arbore fronde. Videre ut fures hunc aurea mala ferentem, ecce avidi huc remis subito pepulere biremem quo teneatque rogant iter. (Instabilem ingressus cymbam Tyrinthius heros jussit in adversum litus traducier; illi tunc ilares fugiunt spatiosa per aequora remis, jamque procul retroque procul cava litora linquunt. Interea tentat dux horum Carpius illi nodosam, duramque dolo subducere clavam, quam manibus, pondus simulans tentare jacentis, suscipit.(Inspicit insolito rutilantia poma colore, ...inde loquaci solicitat nutu socios jam viribus uti. () Unanimes stringunt enses, audentque ferire ignotum Alciden; sed bili percitus acri, atque furens animis heros Tyrinthius ultor unguibus haec subito piratica monstra cruentat, et miseros nudat, membris vi veste revulsa. Tunc illi exanimes prostrati, pectora fletu nuda rigant, vastoque mari se mergier orant. (Quos Deus en furum, gentem miseratus amicam, protinus in parvos contracto corpore pisces, non squama, ut reliqui, contectos pectora pisces, nam fuerant nudi, transmutat; quique pudore criminis admissi subter vada caeca profundi se trepidi condunt; quos (si fas credere famae est) auri sacra fames et pisces improba vexat; quorum terga notat contractus ab ictibus ater Herculeis livor; qui denique in aequore servant et ducis, et patriae, propria et sua nomina pisces». (Hercules Benacensis, vv. 9 – 100 passim)
«L’Alcide, dopo essere stato perseguitato dagli improbi ordini del duro Euristeo e dall’odio della matrigna Giunone, fece per caso un viaggio da queste parti per ritornare alla patria rocca di Tebe. Ma quando vide queste stupende distese del nostro lago, l’eroe tirinzio decise, stanco, di conoscere a fondo questa perla della ridente Italia, di recuperare le forze spese indugiando in questo luogo e di dedicarsi un poco all’ozio. Allora l’Alcide per caso venne alle coste del Benaco, recando con sè i pomi aurei che aveva preso nei giardini delle Esperidi, ancora attaccati alla verde fronda. Quando i ladri lo videro che portava i pomi dorati, ecco che avidi subito spingono da lui la barca coi remi e gli domandano dove sia diretto. L’eroe tirinzio, salito sullo scafo instabile, ordina di essere portato sulla sponda opposta. Quelli allora felici solcano con i remi le ampie acque e già si lasciano indietro lontana la cava riva. Intanto il loro capo, Carpo, cerca di portargli via con l’inganno la clava robusta e nodosa; la prende con le mani fingendo di provarne il peso. Vede i frutti splendenti dell’insolito colore e quindi con un cenno sollecita i compagni ad aggredirlo. Insieme impugnano le spade e osano ferire l’Alcide ignari della sua identità. Ma l’eroe tirinzio, preso da bile collerica e rabbioso subito insanguina con le unghie quei pirati e miseri li denuda strappando dai corpi le vesti a forza. Allora quelli, in ginocchio, esanimi, rigano i nudi petti di pianto e chiedono di essere immersi nel vasto lago. Ecco che allora il dio, provando compassione per i ladri come se si trattasse di gente amica, li trasforma immediatamente, dopo averne ridotto il corpo, in piccoli pesci, ma senza squame, dal momento che erano nudi. Ciascuno di loro per la vergogna del crimine commesso si getta veloce negli abissi oscuri. Li tormenta, se è lecito credere a quanto si dice, una fame maledetta e insaziabile di oro e un nero livido prodotto dai colpi di Ercole compare sulla loro schiena. Questi pesci infine conservano il nome del loro capo e del loro paese [n.d.t. carpione, Carpo, Campione]. (trad. S. Lingeri)

Come si può notare i racconti sono simili, pur con delle varianti. Tra queste porrei all’attenzione il luogo da cui salpano i protagonisti: nello Iodoco, che visse presso Verona, è imprecisato, ma di sicuro sulla sponda veronese, in quanto i due dei scendono dalle pendici del Baldo; nel Voltolina (salodiano) Ercole si trova a Campione, sulla sponda bresciana. Comunque, direi sorridendo, alla fine si giunge in entrambi al centro del lago. Concludo con un passo della già citata lode40 del Becelli, il quale, pur non indugiando su alcuna leggenda, ribadisce il concetto dell’unico Carpione:

«Lauti autem cum sint omnes, lautissimus est, qui unus in his solis degere fertur aquis. Unus et ex auri venis nutritur in ipsis, et qui una hac esca est carpius dignus ali. Nam veluti fulvuum labem non continet aurum, hoc ita pisce nihil purius esse potest, est certum latis spatium quod cingitur undis, Graia aliqui tretum voce vocare solent, quod cava sit rupes fundo, et vena aurea in imo, gaudet ubi hic sedem piscis habere suam, nilque timet summo cum ventus in aequore saevit, et quatit instabiles unda agitata rates, altius, at tectus, curvo et munitus ab antro tuta in tranquillis ocia degit aquis, exercens varios dulci cum compare ludos, et parvam secum nare docens sobolem, voce alij Tritum potius dixere latina, hae quia navigijs saepe terantur aquae, retia quippe frequens iacit hic piscator avarus; carior ex hoc quod gurgite praeda venit, non aliud genus hic piscis, quam carpio pingis». (De laudibus Castri Romani et Benaci, vv. 103 – 124)

«Quando tutti siano squisiti, assai più lo è questo che unico si dice in queste acque vivere; in esse di vene d’oro il carpione si nutre e solo di tal cibo si degna mangiare, chè, come il giallo metallo che non ha macchia, nulla può di questo pesce esser più puro. Vi è uno spazio da vastità di acque chiuso che “Treto” taluno chiama con greco accento, perché nell’antro sul fondo vena corre d’oro. Qui di  sua dimora lieto è il carpione e nulla teme quando il vento in alto infuria e violenta l’onda scuote l’instabile barca: coperto e da arcuato antro protetto / trascorre ozi sicuri nell’acqua tranquilla, col caro compagno gioiosamente giocando e ai piccoli insegnando a nuotare con sé. Altri con voce latina “Trito” chiamano il sito chè le acque ne sono da navigli spesso percorse,  Qui, cupido, il pescatore getta le reti poi che preziosa dal gorgo preda ne viene. Qui nessun altro pesce che il pingue carpione; a lui l’onore, a lui questo solo luogo spetta». (trad. Sala - Salandini).

da Discorso di Peste, Ateneo di Salò, 2009


NOTE

18 Il testo latino è pubblicato, con molti errori di trascrizione dal manoscritto Queriniano latino D VI 28, in PAOLO GUERRINI, Fonti per la storia bresciana, Brescia, Edizioni Del Moretto, Vol. II, 1927.
19 Corcira, isola di Alcinoo, re dei Feaci; la descrizione dei giardini nel celebre passo omerico (Odissea, VII, 114 – 135) costituisce la fonte per tutti gli autori cinquecenteschi.
20 Per l’identificazione della “mela della Media” e dei pomi d’oro delle Esperidi col limone, rimando all’articolo di GIORGIO MINELLI in “L’Archibugio”, n° VIII, ottobre 2005, p. 13. Pare opportuno tuttavia far notare che una variante rara del mito tende a identificare i pomi aurei con le mele del cotogno (Cydonia vulgaris). Secondo altri ancora sarebbero stati cedri. Tra questi, Giovanni Pontano (1429 – 1503), il quale compose un celebre poema didascalico in due libri di esametri latini sulla coltivazione dei cedri dal titolo De hortis Hesperidum. È inoltre interessante segnalare un precedente elogio del Benaco, ovvero un carme di 34 esametri composto da Guarino Veronese nel 1419, dedicato a Ludovico Marchenti. Nel testo non vi sono riferimenti agli orti delle Esperidi, il che può far ipotizzare che sia stato proprio il Posculo il primre che il passo del Bembo qui citato sarà imitato dallo Iodoco in Benacus, I, 46 – 132.
22 Redazione ampliata nel 1528. 
23 GIROLAMO FRACASTOROCarmina, Verona, , Edizioni di vita veronese, a cura di F. Pellegrini, 1954. Tra le altre citazioni del Benaco, ricordiamo Carmina, XIII, 3 – 7 (Sarca e Benaco insieme); XVI, 33 (Saturno sul Benaco); XXVII, 1 – 3 (Gian Matteo Giberti in una grotta sul Benaco).
24 “Sarca, poema del XVI secolo, a cura di G.B.Pighi, Arco, 1974 ”. Stupenda edizione, con testo latino, traduzione italiana e note del Pighi (e traduzione tedesca di K.Ziegler). Riguardo alla paternità dell’opera, tra i nomi del Bembo soprattutto, ma anche del Fracastoro, del Beazzano, del Navagero, etc, il Pighi sembra indirizzarci, con il consueto e grande acume filologico, verso l’attribuzione a Niccolò D’Arco (1479 – 1546).
25 Per un breve profilo biografico del Bonfadio cfr. “CARLA BORONI/ M. COMINI, Brescia contro, Brescia, La compagnia della stampa, Massetti Rodella editori, 2000, p. 39 e ss. ” . 
26 Questa lettera costituirà la fonte per il sonetto di Gian Giorgio Trissino dedicato ad Isabella d'Este in vacanza sul Garda
27 La coltivazione degli orti, recata in versi italiani da Gaetano Gargnani, Salò, per Bartolommeo Righetti, 1813”. Contiene tutte le opere poetiche del Voltolina: il De hortorum cultura, poema in tre libri sulla coltivazione dei giardini, l’egloga piscatoria Misetus, l’ode Isis e l’Hercules Benacensis.
28 La citazione di Adone da parte del Bonfadio, e quindi del Voltolina, è una vera perla di erudizione. In De hortis Hesperidum I, 68 e ss. infatti, il Pontano si inventa il mito in cui Venere trasforma il corpo morto dell’amato Adone in cedro. L’allusione pertanto è davvero assai dotta e preziosa.
29 TOMMASO BECELLI, De laudibus Castri Romani et Benaci, a cura di G. Sala e F. Salandini, Comune di Costermano, 2006.
30 Cfr. LAMBERTO CARLINIGirolamo Verità filosofo e poeta veronese del XVI secolo, Verona, 1905.
31 In particolare, stupisce un poco la citazione presente nell’Orlando innamorato di MATTEO MARIA BOIARDO (prima ediz. 1483): «sotto terra il manda (sott. l’oro) a l’alti monti, / dove se cava poi con gran fatica; / e ne’ fiumi l’asconde e dentro a’ fonti, / e in India, dove il coglie la formica. / Abada e guarda ben che sian disgionti, / che ciascaduno un pesce ne nutrica: / e vo’ che sappi il nome per ragione: / timavo è l’uno e l’altro è il carpione. / Questi due pesci viveno d’or fino». (Orlando innamorato, I, XXV, 6 – 7)
32 Per le sabbie dorate del Tago (lat. Tagum; spa. Tajo), cfr. CATULLO, 29, 19; SENECA, Thyestes, 354 -355 «aut unda Tagus aurea / claro devehit alveo»; LUCANO, Pharsalia, VII, 755 «quidquid effodit Hiber, quidquid Tagus exspuit auri», che il Posculo rieccheggia. L’immagine fu celebre e citata da molti scrittori spagnoli (N.B. spagnoli erano anche Seneca e Lucano!). Tra questi, Garcilaso de la Vega (per cui rimando al mio articolo su “L’Archibugio” n° XVII, luglio 2008), amico, attraverso Antonio Telesio, del Parrasio, il quale dedicherà al Dolcino un epigramma latino.
33 Per le sabbie dorate del Pattolo, cfr. VIRGILIO, Eneide, X, 142 «Pactolusque inrigat auro»; OVIDIO, Metamorfosi, XI, 87 – 88 «Pactolonque petit, quamvis non aureus illo / tempore nec caris erat invidiosus harenis»; PROPERZIO, III, 18, 28 «aut, Pactoli quas parit umor, opes»; I, 6, 32; I, 14, 11; Pattolo e Tago insieme in GIOVENALE, V, 14, 298 – 299: «aurum / quod Tagus et rutila volvit Pactolus arena» e in TOMMASO BECELLI, De laudibus Castri Romani et Benaci, 95 – 96 «non haec Pactolo rutilantes flumine arenas, / aurifero non haec invidet unda Tago».
34 Riguardo all’Ermo, cfr. VIRGILIO, Eneide, VII, 721; Georgiche II, 137; ERODOTO (V, 101) dice che riceve le acque dal Pattolo.
35 Vale la pena riportare come descrive il Fracastoro un fiume sull’isola di Ofiri: «D'un fiume al corso, che nel vasto letto / fulgide arene d'oro al mar travolve», Syphilis, sive de morbo gallico, III, 139 – 140.
36 GIROLAMO FRACASTORO, La leggenda del carpione, Verona, Stamperia Valdonega, 1966; cfr. MARIO ARDUINO, La navigazione benacense nell’antica poesia. Il poemetto figura inoltre come il quinto dei Carmina nella prima edizione veneziana del 1555.
37 A leggere quanto scrive il Dolce ci si domanda quanto il Sarca, che si chiude proprio con un elogio del Pontano e del Sannazaro, possa essere attribuito al Bembo.
38 Nell’articolo di V. CAVAZZOCCA MAZZANTI “Catullo, Quinzia e i carpioni – Brescia, rassegna mensile illustrata, anno III, n° 11, novembre 1930 ” si racconta, purtroppo senza dichiarare da dove si sono prese le informazioni, vizio in verità assai fastidioso, che i carpioni si sarebbero cibati delle lacrime di una fanciulla amata da Catullo, Quinzia, la quale pianse pensando che l’amato fosse in pericolo. Da allora le loro carni sarebbero divenute di ottimo sapore.
39 Questa è riassunta, da L. IMBRIANI, che però non dichiara la fonte, nell’articolo “Siesta di Ercole sul Benaco – Rassegna dell’Ente Provinciale del turismo, anno 1, n° 1, Novembre 1949, S.T.E. Vanni, Brescia”.
40 L’opera, dedicata a Francesco Nogarola, è preceduta da un epigramma del Nogarola stesso, il quale, ai vv. 5-6, scrive: «Si liquidas Benaci undas, nantesque per illas / quos auro pisces, vivere fama refert».

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